31 dicembre 2018

L'ultimo post.


Non ha suonato la sveglia. Uno potrebbe trovare tante scuse per essersi dimenticato una data, io invece non ne ho bisogno, di scuse. Perchè ho una verità: non ha suonato la sveglia.

Qualche giorno fa mi ero ripromesso di scrivere un post da pubblicare su questo blog il 29 dicembre 2018, a dodici anni di distanza dal primo post in assoluto (sul quale non c’è bisogno di fare commenti, ok? Era un altro mondo, un altro internet).
Mi sono detto, faccio un post di riepilogo, una roba che ci sta bene alla fine dell’anno, dove uno prende le misure di quello che ha fatto, di tutti i ricordi che ha prodotto, in se stesso e negli altri, e le robe anche difficili, le pause. E non penso di farlo parlando dell’ultimo anno, lo faccio in generale sulla vita del blog, su come sia nato fondamentalmente per provare una piattaforma, su quanto è stato importante averlo in alcuni anni, prima che facebook divorasse anche il desiderio di condividere le cose. Di quanto mi ha fatto bene che ci fosse, perchè è stato la mia prima alternativa alle immagini, il primo contenitore non fotografico in cui mettere un pezzetto del mio ego da esporre. E di quanto il mio ego fosse contento quando c’era gente che mi conosceva per via del blog, e non per tutti gli altri sforzi professionali e arrivisti sul costruire una carriera fotografica credibile. Il blog, come tutto quello che mi è capitato di scrivere non è mai stato credibile. Ed è la cosa che mi ha più protetto dalle mie manie di controllo e perfezionismo. Sempre incredibile, come mi ripeto da solo.

Insomma, io avevo impostato un promemoria, un allarme, una sirena che mi ricordasse di scrivere questo pezzo un giorno prima del dodicesimo anniversario, e di pubblicarlo per tempo, con gli squilli di tromba e le parate di odalische. Non ha suonato, giuro. Ieri sera me ne sono ricordato, improvvisamente. Sono andato a controllare, e il promemoria era lì dove lo avevo lasciato, intonso, come nuovo, mai usato. Mi guardava inconsapevole, come un piccolo labrador che si è appena mangiato 100 euro. Troppo tardi, niente anniversario.

Quello che avrei voluto scrivere sarebbe stato comunque, prima di tutto, l’ultimo post di questo blog. Perchè è chiaro che questo blog è finito da tempo, ma d’altra parte credo che un post conclusivo ci volesse, tanto per non lasciare niente di appeso.
Se smetto di scrivere su queste pagine è solo perchè c’ho voglia di scrivere altrove, e con motivazioni nuove. In effetti c’ho anche voglia di usare la scrittura e la testa a servizio di contenuti altri, ma questo è un altro discorso.

Sicuramente quello che celebra al meglio questo passaggio, questa conclusione, è l’uscita di un libro. È successo poco meno di un mese fa: ho deciso che per Natale avrei pubblicato una raccolta di racconti, brani, dialoghi, immagini, episodi. L’ho deciso come reazione alla paternità, a questo diventare finalmente adulti, che però accade così velocemente che quasi si perdono le tracce di quello che c’era prima. Però io quelle tracce non voglio perderle, almeno qualcuna va lasciata. E anche se non saprei bene come si racconta tutto quel prima in due parole, so che in questo blog c’è gran parte della storia, tutta mischiata.
Insomma, quasi tutti i contenuti li avevo già, il libro è infatti una selezione dei post usciti qui e su altre piattaforme (in generale cose già diffuse, pochi inediti). Bisognava selezionarli, editarli, impaginarli e mandarli in stampa. Ecco fatto. La cagata. Mi sono detto che facendo così, riproponendo cioè un semplice elenco di testi e foto particolarmente riusciti, avrei fatto una cosa tipo il “Best of Boccaccino Christmas 2018”, tipo Michael Bublè. E invece no, tutti quei contenuti dovevano diventare un corpo unico, dovevano interagire in qualche modo l’uno con l’altro, e soprattutto con il libro che andavano a comporre. E così tutti i testi e le immagini sono diventati le note a margine di un piccolissimo brano in apertura - un pretesto che è lì solo allo scopo di richiamarle - scritto per l’occasione. In altro parole ho pubblicato un libro fatto di note a margine. Bene, così mi interessa di più. Bublè sei un poveraccio.

Se vi va di prendere una copia del libro, a questo link trovate tutte le istruzioni.

Detto ciò penso che possiamo chiudere. Non sono dell’idea che ogni volta che si chiude una porta si apre un portone, che quello che arriva superi sempre quello che è stato. Diciamoci la verità, sono solo frasi consolatorie che si tirano in mezzo quando finisce qualcosa di bello. Qualche volta succede che si apre un portone, e qualche volta no. Per me adesso di sicuro finisce una cosa molto grande (fatevi il conto di che età avevate 12 anni fa, e come vedevate il mondo allora) e ne inizia una piccola. O forse una serie di cose piccole, perchè nuove. Ed è bello così, perchè le cose grandi prima o poi finiscono, e quelle piccole prima o poi crescono. Certo, lo capisco, chi se ne frega di una piccolezza rispetto all’enormità. Le frasi di circostanza sui portoni ci vogliono, servono proprio a questo. Però anche se nessuno se ne frega subito, la piccolezza sta succedendo. Sta lì, diventa.

Se non vi convince pensatela in quest’altro modo: non so in che momento voi state leggendo queste righe, ma adesso che le scrivo è lunedì mattina, e anche se è l’ultimo giorno dell’anno è pur sempre il primo della settimana.

15 giugno 2016

Di quando ho scritto un testo introduttivo e poi non era vero.

Tempo fa le amiche di Everyday_Italy (l'account instagram collettivo che, un fotografo alla settimana, racconta l'Italia in maniera figa) mi avevano chiesto di scrivere un testo introduttivo per una mostra che ci sarebbe stata durante FotoLeggendo, a Roma (festival che ha inaugurato la settimana scorsa). Io ho accettato, povere loro. 
Doveva essere un "intervento breve ma intenso, divertito ma romantico, scanzonato ma intelligente, sul tema di Italia, quotidianità, cellulari, comunicazione, digitale, collettivo, instagram e fotografia mischiato ovviamente a quello che ti pare". Io mi sono concentrato solo su "quello che ti pare" e ho scritto una cosa su Jovanotti (che alla fine, insolentemente, è andata esposta con le foto).

La mostra è stata spalmata con un allestimento fresco e informale sul Ponte degli Argonauti, alla Garbatella. Pare fosse qualcosa di bello, io non l'ho vista perché dovevo risolvere sta cosa del diventare padre, però magari è ancora lì, andateci. Ah, comunque quello che segue è il testo in questione.

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C’è una mostra di cose Instagram su di un ponte e io lo so che cosa stai pensando. No, non è vero, non lo so.
Però so che cosa sta pensando Jovanotti in questo momento, ovunque si trovi.  E in effetti non è così difficile immaginarlo, visto che da quando è diventato quarantenne non pensa più in maniera discorsiva, lineare, progressiva: Jovanotti pensa per elenchi. Quello che scrive è ormai un’enorme lista della spesa di cose che evocano in qualche modo ricordi, emozioni, desideri. Lui mica canta, sta lì e fa elenchi.

Quindi è presumibile che adesso sarà lì a dirsi, più o meno:

L'amore di una sera, gli amici di una vita,
la maglia dei mondiali scolorita.
Innaffiare le piante.
Una mamma, una figlia.
Un magnete sul frigo, la parmigiana di melanzane dentro.
Saltare la corda, comprare le patate.
Un rotolo di scottex.
Un cactus.
Il Big Bang.

Robe così, e la gente di solito ci si riconosce pure (perchè sì, è vero, oggi la gente si riconosce in quasi tutto).

Già, questo è una sorta di testo introduttivo ad una sorta di mostra fotografica sull’Italia. E parlo di Jovanotti qui soltanto perché mi sembra che, in generale in questo paese c’è un po’ di gente che gli dà credito. E io adesso - visto che devo pensare ad un testo critico su come si racconta l’Italia, sulle comunicazioni contemporanee, sull’impulsività dei social, sulla spontaneità decostruttivista della narrazione mitopoietica - voglio capire se Jovanotti c’ha ragione o no a parlare di questo paese spezzettandolo, isolandone gli elementi e mettendoli in fila.
Fatto. C’ha torto! Diciamocelo, il metodo Jovanotti fa cagare. É limitato, semplicistico e riduttivo. Per costituire un immaginario ne prende uno di partenza, lo mischia tutto, lo mette in fila un tassello accanto all’altro, e ciò che ne esce è uguale a quello di prima. Tipo il gioco delle tre carte, ma la posta sono i tuoi riferimenti culturali. Maledetto.

Io lo capisco che per narrare certe cose, tipo l’Italia oggi, o la nostra generazione (ognuno ha una sua generazione, quindi non ti sentire escluso), una strada buona sembra quella di lasciar perdere e mettere soltanto in successione gli elementi chiave. Però così ti arriva a casa un pacco pieno di pezzi numerati, una sorta di IKEA emotiva, in cui tu in qualche modo riconosci ogni pezzo e, anche se non sai di preciso che farci, sembra proprio che l’insieme sia destinato a te. E magari finisce pure che diventa la tua camera da letto.

E invece no.

Almeno per il tempo che ti serve a guardare questa serie di immagini, lascia stare le istruzioni IKEA e gli elenchi di Jovanotti. Non cercare il filo in un discorso fatto di punti, perché se lo cerchi vuol dire che lo conosci già. Sì ok, sono tutte foto sull’Italia, sulle città e la provincia, sul nostro tempo e il nostro mondo. Ma lascia perdere, non c’è bisogno di leggerci dentro questo racconto. Il bello di queste immagini è che, volendo, possono illustrare un’Italia possibile, e non necessariamente reale. Prese singolarmente magari documentano pure qualcosa, ma nell’insieme fortunatamente no. E non solo perchè arrivano da autori diversi, ma soprattutto proprio per quella storia della “spontaneità” di Instagram, che si basa quasi sempre su episodi, su piccole scene ed esperienze ristrette. E che, di conseguenza, richiede per forza a chi guarda - e meno male - un impegno a costruirsi in testa le storie che nelle foto non si vedono.
Insomma, non ti riconoscere in queste immagini, prendi i pezzi numerati per montare la camera da letto e facci una barca a vela. È così che viene fuori un immaginario nuovo, che tra l’altro in questo paese è una delle cose che serve di più.

Scusate, vi devo un testo introduttivo.

26 maggio 2016

Tutti dentro.


- In alto come siamo messi?
- Troppi aerei, signore. Non possiamo alzarci più di così.
- Allora scavate ancora.
- Abbiamo scavato già. Sotto è tutto vuoto, signore.
- E di lato? Di lato è vuoto? Possiamo metterci di lato!
- Nossignore, di lato è tutto pieno.
- Anche a sinistra? E più di lato ancora?
- Spiacente signore, ma sempre più a sinistra siamo arrivati a destra, dall'altra parte. Tutto pieno.
- Mmmh.
- Signo...
- Giovanotto, non voglio sentire niente. Dovete scavare ancora. Non c'è soluzione. Scavate dove tutto è già pieno e costruite dov'è tutto ormai vuoto. Sventrate i palazzi, le case e i centri commerciali e riempiteci le cave e i tunnel.
- Certo signore, come desidera. È solo che potrebbe essere difficile da spiegare, dico alla gente.
- La gente?
- Mi perdoni, ma crederebbero che è soltanto per muovere materiali e uomini, o peggio ancora per fare soldi. Sembrerebbe un lavoro fine a sè stesso.
- E invece è tutt'altro, ragazzo. E tu lo sai bene se lavori qui. Il fine c'è.
- "Non deve esistere più alcun fuori in cui rischiare di trovarsi".
- Esatto.

24 aprile 2016

Disastrologia.


Ariete
È stata una giornata pesante e, arrivato alla fine, sono molte le porte che ti trovi davanti, ma procedi sicuro verso una soltanto. È quella che conosci meglio, quella che hai varcato tante volte, la porta di casa tua. Questa volta però la trovi chiusa a chiave, sbarrata, inaccessibile, tanto che ti insospettisce un pò ti preoccupa. Quella che è sempre stata un’operazione fatta con indifferenza e naturalezza, rientrare a casa, sembra oggi il più difficile dei traguardi. Purtroppo, Ariete, questa volta nessun tentativo di comprensione o accondiscendenza ti aiuterà. Sei costretto ad affrontare la situazione di testa, seguendo la tua dote più caratteristica, e dovrai sfondare quella porta.

Toro
Sono mesi che le stelle cercano di indicarti la strada, che i pianeti e le costellazioni si combinano disegnando il mondo che ti circonda, ma solo adesso, con una porta sfondata alle tue spalle, riesci ad unire tutti i puntini e a capire quanto ultimamente sei stato coglione. Ecco il momento in cui tutto l’universo si rivela ai tuoi occhi, e purtroppo non è un bello spettacolo. Capisci finalmente perchè ti sei sentito stranamente tagliato fuori dalle tue cose, dalle tue relazioni, da casa tua. E lo capisci entrando in camera da letto e trovando Venere in opposizione, che poi si configura con il tuo migliore amico steso sulla tua ragazza. L’amore di cui non hai mai dubitato mai si rivela una grande menzogna e tutto perde di senso, tranne le tue corna, Toro.

Gemelli
La vita è uno specchio, ci fa credere che siamo duplici, che siamo la metà di qualcosa, che viviamo relazioni con persone uguali a noi. Sorridono quando sorridiamo, ci assomigliano, ci sanno guardare negli occhi. È arrivato però il momento in cui ci si rende conto che quelle persone, quelle amicizie e quegli amori sono soltanto una proiezione. Siamo sempre stati soli.

Cancro
La settimana che hai davanti non è cosa da poco, diciamocelo. La tempesta che si abbatte sulla tua vita sentimentale inzuppa pure le vicende lavorative, la famiglia e la salute. Dovresti cercare di mangiare di più, di dormire meglio, di uscire di casa più spesso... ma ti sembra un compito così noioso e difficile che alla fine passi i pomeriggi sul divano col pollice che striscia da solo sul cellulare. Non vuoi vedere nessuno, e quella che ti ripeti essere una corazza, un carapace che ti protegge, è in realtà una malattia.

Leone
Dopo settimane di apatia è arrivato il momento di far vedere al mondo intero di che pasta sei fatto. Ti sei convinto che nella vita non serva davvero coraggio, ma solo dimostrare di averne. Di conseguenza cerchi di curare molto la tua vita sociale: apri anche un account Instagram. Ogni tanto esci per fare il brillante agli eventi a cui avevi detto “Parteciperò”, sorridi, bevi più del solito, ti compri una giacca figa che quando finirà questo periodo non metterai più. Pubblichi post su facebook dicendo che stai per partire, che stai facendo qualcosa di misteriosamente artistico, che hai letto un libro intero, che scrivi per un giornale importante, che hai imparato il jujitsu.
Cambi una foto profilo ogni tre giorni, posti un’immagine della tua scrivania ogni sei ore, ti geolocalizzi ogni sera, metti “Parteciperò” ad eventi in città in cui sai che non andrai mai. Speri che qualcuno reagisca. E alla fine sì, sei diventato effettivamente il re della giungla, anche tu. 

Vergine
Hai appena conosciuto una persona nuova. Forse non sarà quella giusta, ma in questo momento è quello che ti serve: riguadagnare fiducia in sè stessi è un processo che passa dal ricevere fiducia altrui. Le hai raccontato quanto basta per creare intimità, proteggendo però il tuo fascinoso mistero e soprattutto i cazzi tuoi, perchè non hai voglia di condividere certe cose più con nessuno. Cerchi di tornare ad essere emotivamente integro, illibato impenetrato. Ma guardati allo specchio, Vergine, l’imene sentimentale non si può ricostruire. 

Bilancia
Va bene, non tutto il male viene per nuocere. Però sticazzi, fa male, anche se non lo fa apposta! La tua costante ricerca di un equilibrio interiore parte proprio dalla necessità di accettare il dolore, la sofferenza. Sei consapevole di tutto, cerchi la tua misura per il mondo e sebbene sia difficile ti dici che la vita è solo una serie di relazioni tra i suoi elementi, che è tutto bello così, che lo zen, che vaffanculo. Caro Bilancia, in questo momento la tua vita sembra essere un’altalena tra il vedere tutto bellissimo e il vedere tutto una chiavica.
 
Scorpione
La vita è meravigliosa.
 
Sagittario
La vita è una merda.

Capricorno
In un epistolario di affetti (in effetti uno scambio di telegrammi) di metà novecento è stato trovato un dialogo d’amore tra più concisi e ambigui di sempre. Sebbene le speculazioni a riguardo siano state tante, nessuno è mai arrivato ad un’interpretazione certa.
- Ti amerò sempre come se fosse la prima volta.
- Io sempre come se fosse l’ultima.
Ci si è a lungo chiesti se si trattasse di una meravigliosa dichiarazione d’amore o di un presagio di sofferenza. E se in effetti ci sia una reale differenza tra le due cose.
Dal canto tuo, Capricorno, lo zodiaco è ricchissimo di animali con le corna e sembra non ce ne si possa sbarazzare mai. In testa ti girano sempre le stesse domande, come chiunque abbia provato a dare un senso ad una storia d’amore. Lascia perdere.

Acquario
Il mondo fuori è tutto finto, ovattato. Non senti niente per davvero, ti accorgi di vedere le cose che succedono, ma non ne comprendi davvero l’importanza. È come guardare il mondo dal di qua di un vetro. Le flessioni, gli addominali, l’alcool, le scopate sul divano, gli amici di sempre, i sempre degli amici, i nuovi acquisti, le feste, l’insonnia, l’erba, la solitudine, i nuovi amori, i vecchi errori, la corsa, la leggerezza, il lavoro, l’estate.
Il mondo al di là del vetro è terribilmente noioso, sconnesso, inautentico. Eppure, Acquario, è proprio quel vetro che ti tiene integro. Quel filtro, oggi, costituisce anche la tua struttura, la protezione di quello che sei ora. Se te ne liberi per cercare di vedere meglio oltre, rischi di ritrovarti vuoto.

Pesci
Alla fine ce l’hai fatta. Le preoccupazioni che le stelle ti hanno imposto nell’ultimo periodo sembrano essere svanite davvero tutte. L’opposizione di praticamente tutti i pianeti della galassia è ormai un ricordo e il cielo disegna finalmente un’atmosfera di rinascita. Quella stronza si è trasferita a Milano. Non hai paura più di niente e le tue giornate si susseguono sempre più serene, nella consapevolezza che il pericolo e tutto ciò che lo riguarda sono ormai lontani, inaccessibili, innocui. Non ne saprai più niente, e già questo ti rassicura. Ma presta comunque attenzione, Pesci. Nuotare con troppa disinvoltura in un mare che sembra libero da notizie dolorose e inaspettati aggiornamenti dal passato può farti sottovalutare la minaccia più grande per uno come te: la rete.

9 febbraio 2016

Poeti e navigatori.

Il testo seguente fa parte di "Questo posto non esiste", una serie di brevi diari raccolti a luglio 2015, quando sono uscito pazzo e sono andato in Basilicata a vedere se era vero. 


Mentre guido cerco di ricordarmi la ragione per la quale sto andando a Castelgrande, il motivo per cui ritardo ancora la mia uscita dalla Basilicata. Non che poi quest’uscita voglia dire molto, è di certo solo una cosa psicologica, catartica, però vuoi mettere, di sti tempi, a trovare una cosa catartica che veramente funziona?
Me lo ricordo quasi subito di che si tratta. Si tratta di stelle. C'è questo posto in cui si dice che di notte c'è il buio vero e puoi vederle come in nessun altro posto, tanto che ci hanno costruito questo grande osservatorio astronomico, a mille e duecento metri di altezza, perché “il contesto ambientale, privo di inquinamento atmosferico e luminoso ha contribuito a creare le condizioni ideali per l’approfondimento dell’astronomia”. Suona detta da un politico, più che da uno scienziato, e difatti è dagli anni sessanta che tutti quanti sono lì a dire che figata ci facciamo il più grande centro astronomico d’Italia, d’Europa o magari d'America. E ce la mettono tutta, ogni giorno, per riempire quelle alture di ricercatori, astronomi e astronauti, ottenendo però a quanto pare tutt’altri risultati.
È successo infatti che mentre gli anni passano e le strade del paese continuano a non riempirsi di scienziati, a Castelgrande nascono e crescono generazioni di poeti e di navigatori abilissimi, che come si sa diventano tali a furia di guardar le stelle.


E quel cielo che non viene quasi mai studiato resta comunque sempre lì a disposizione, istruendo una quantità sempre crescente di innamorati, aspiranti esploratori, cuori infranti, ambiziosi avventurieri e animi sensibili in genere. Dove non è arrivato il progresso, è comunque rimasta la contemplazione. Ed è giusto pensare, ancora una volta, che è il territorio che plasma le persone. E lo fa in silenzio, anche contro il loro volere, prendendosi forse la rivincita per tutte le volte in cui succede il contrario.
Così oggi Castelgrande, comune dell’entroterra montuoso lucano, pur non essendo diventato un centro astronomico di livello internazionale come sperava, può vantare il rinomato Circolo di Vela e Navigazione Astronomica “Amerigo Vespucci”, e la sede dell’Associazione culturale “Lo Spazio Poetico”, dove ci si confronta su composizioni che hanno per temi principali la fuga, l’infinito e l’adolescenza negli anni settanta. Che comunque sono cose.

Chiaramente un posto del genere ti dà molto da pensare. Ad esempio, un luogo così tanto buio di notte sarà assolatissimo di giorno. Magari è una fesseria. Però io ero lì negli stessi giorni in cui l’estate nelle grandi città nutre la frustrazione di chi lavora, in cui i vecchi muoiono di vecchiaia e i telegiornali dicono che è stata l’ondata di caldo. E quindi al sole, un po', ci pensavo.
A dire il vero non sono una persona che lo patisce, il caldo. Tanto che quello enorme, soffocante, che c’era quando sono arrivato me lo ricordo non tanto per il sudore, l’afa e il disagio. Non sono stati quelli a diventare memoria, quanto l’enorme sollievo, quasi incredulo, che ho provato alla domanda: “Robè, te lo vuoi fare un tuffo?”.
Il tipo che incontro a Castelgrande si occupa di tante cose pubbliche in paese, e non è il sindaco. Tra le tante gestisce la piscina, credo comunale, alle porte del centro abitato. E’ un tipo sorridente ed estremamente ospitale, sebbene sia preso da mille pensieri.
Il mare è lontano centinaia di chilometri, guardo alle sue spalle e tutto è celeste e bianco, cemento bagnato e piastrelle lucide, e l’acqua sembra la più fredda di sempre. Certo che lo voglio fare un tuffo, ed è quello che ancora mi ricordo.

Due ore dopo sto seguendo una macchina della polizia municipale che mi fa strada verso una località sperduta e brulla, dove c’è appunto il grande osservatorio.
Quando arriviamo lasciamo le auto e chiedo al vigile che mi ha fatto strada se può raccontarmi un pò la storia di quel posto, per come la conosce. La sua risposta è lenta, cadenzata, forse svogliata, a farmi intendere che in fondo è una storia ovvia, fatta di desideri e di mancanze, di grandi paesaggi e di un progressivo lasciar perdere. Nel frattempo fa scorrere un grande cancello di metallo, e la storia inizia a procedere al di là, attraversando lenta, insieme a lui e me, un piazzale enorme. Poco dopo, quando si apre il portone d’ingresso, i nomi e le inaugurazioni ci precedono all’interno, e mentre camminiamo in grandi corridoi, saliamo scale e accendiamo luci le vicende occupano ogni spazio, prendendo la forma che trovano. Man mano che entriamo nelle stanze la trama inizia a rarefarsi, ripetersi e diluirsi, e i vuoti degli ultimi anni si sovrappongono ai vuoti dei laboratori e degli uffici, arrivando pian piano al telescopio, spento e coperto. A quel punto il vigile se ne va via, nel silenzio che lo ha contraddistinto sempre, lasciandomi lì da solo per tutta la notte.

Immaginavo di poter finalmente vedere il buio vero, in un posto del genere. Di poterne avere paura e magari di volerlo anche fotografare. E mi chiedevo se si può vedere il buio se non si vede niente. Come posso dire di aver visto il buio assoluto senza il sospetto, invece, di non aver visto proprio nulla? Come faccio a distinguere una cosa che si manifesta totalmente indistinguibile? Ah non lo so mica, ma proprio per questo sarà di certo un elemento risolutorio, fonte di serenità e sollievo, angoscia e panico. Sarà sicuramente un buio rivelatore!
Così mi siedo su una di queste panchine messe lì intorno e guardo il tramonto fino alla fine, fino a che non ce n’è più e inizio a sentire freddo. E sto lì a guardarmi intorno, sapendo che dovrebbe proprio succedere qualcosa da un momento all’altro, e invece non succede niente. Il buio arriva e, ancora una volta, mi ci abituo.

2 febbraio 2016

Sigarette Jedi.

Il testo seguente fa parte di "Questo posto non esiste", una serie di brevi diari raccolti a luglio 2015, quando sono uscito pazzo e sono andato in Basilicata a vedere se era vero. 


Anche qui, come in tutti i deserti, non sono abituati all’idea del turista. Se arrivi da altrove sei solo un forestiero. Sì, a volte potresti essere plausibilmente un turista con il quale attuare le solite prassi, ma generalmente ci si ferma alla prima impressione. E mi rendo conto che è anche una cosa bella per certi versi, ma per certi altri direi proprio di no.

Lo scenario che mi circonda non potrebbe essere più allucinante. Il sole in certi posti sembra sorgere già a picco, da un momento all’altro, quasi a spaventare chi dorme, più che semplicemente a svegliarlo. Sembra un po' come stare nel primo film di Guerre Stellari, che poi sarebbe quello che è uscito come quarto (da alcuni considerato il quinto, se li conti in equilibrio su una gamba e con le dita nelle narici). Insomma il film dove c’è quel pianeta in cui abita il piccolo Anakin, dove si fanno le gare di astronavi tra la polvere e tutto è arido e ci sono incidenti, corporazioni, schiavisti e silenzio.

La mattina in cui arrivo dormono ancora tutti, è molto presto, mi faccio un giro ed entro a fare colazione nell’unico bar che trovo. È in un caseggiato basso costruito come tutti gli altri, come le case, come la scuola, come il municipio e il supermercato. Ogni edificio è uguale all’altro perchè tutto è stato tirato su in un giorno, quando si decise di evacuare il vecchio insediamento e venire a vivere qui, in un paese che prima non c’era e che a pensarci bene non si può essere sicuri ci sia nemmeno ora.

Avvicinandomi al bancone scopro con grande disappunto che è già finito tutto. Niente cornetti, niente brioches o paste, niente tramezzini, trecce, panini. Niente. Tutto finito, e nemmeno sono le otto di mattina. La mia faccia è inequivocabile: disperazione totale, sconforto senza ritegno. Rifletto e mi persuado che questo paese è così piccolo che i colazionanti al bar si potrebbero contare sulle dita della mano di un bambino, semmai nascesse, e di conseguenza il barista compra solo due o tre cornetti per quei pochi, soliti, avventori. E il forestiero in sovrannumero si muore di fame.
Chiedo affamatissimo se c’è qualcos’altro da mangiare e lui, indicandomi le patatine alla rosa canina e kevlar, mi domanda da dove arrivo. Gli dico che sono partito da Nova Siri, quando ancora era buio. Mentre lo dico, in un bar circondato da chilometri di sabbia e calanchi, mi accorgo che Nova Siri sembra il nome di una stella buona, di un'oasi ospitale attorno alla quale si è radunata la vita e sono nate le nuove colonie di una specie esule. Domando se c’è un altro posto aperto dove posso fare colazione e mi viene detto il nome di un paese che forse nemmeno mi ricordo.

Prendo solo un caffè, mettendo da parte l’appetito enorme che provo ogni volta che mi alzo, e chiedo al barista dove posso comprare le sigarette. Fuori è già caldo, non si muove niente. Il ragazzo dietro il bancone si gira con la faccia sorniona di quello che non si fa fare fesso. La mia evidente sorpresa e il mio irragionevole lutto per la storia dei cornetti devono avergli forse suggerito che non capisco le dinamiche di un posto del genere. Che non so niente di dove mi trovo, e come un bambino in un uno strip club, ho bisogno che mi si spieghi tutto. Mi risponde, rapido e sicuro: “Dal tabaccaio!”
I due o tre uomini che sono nel bar, vestiti da lavoro, e fino a quel momento immersi nei loro schiamazzi, si fermano e lo guardano in silenzio per un tempo lunghissimo. In quel silenzio pure io osservo la sua espressione fissa, compiaciuta e al tempo stesso indulgente.
Il ragazzo mi vede come un Jedi venuto dalle colonie per testare la sua prontezza e la sua logica, per metterlo alla prova. Oppure pensa soltanto alla mia incapacità da straniero di saper accettare la vita in posto così, anche nelle sue manifestazioni più ovvie. Come l’impossibilità di una colazione per tutti, i fantasmi del paese vecchio, o il dover nascere in un luogo che ti ricorderà ogni giorno che non arrivi da lì. E come, chiaramente, la disponibilità delle sigarette dai tabaccai.
Il silenzio si comprime e collassa in un gigantesco clamore, in cui tutti alzano la voce e cominciano a deridere il ragazzo dietro il bancone e la sua ingenuità. Lui all’inizio sorride nella frenesia generale, fino a ché non si accorge che quella nuvola di ingiurie si è gonfiata solo per piovergli addosso, e quasi non capisce.
Il mattino seguente arrivo alle sette meno un quarto e prendo l’unico cornetto alla crema, un cappuccino scuro e mi fumo una sigaretta seduto lì fuori, meditando zitto sul risveglio della forza.

26 gennaio 2016

La cupola.

Il testo seguente fa parte di "Questo posto non esiste", una serie di brevi diari raccolti a luglio 2015, quando sono uscito pazzo e sono andato in Basilicata a vedere se era vero. 


La musica e la voce partono quasi in contemporanea, come un’unica sirena, come il tragico allarme che precede i bombardamenti. Seduto fuori la mia tenda sto lì a non pensare, e il boato mi investe con violenza e di sorpresa.
Dopo qualche notte accampato libero (o abusivo, come vi pare) mi sono fermato in un campeggio qualunque a Metaponto. Tra i tanti ho preso il primo che c'era, volendomi solo stendere e rilassarmi, senza stare a pensare a chi, mentre dormi, può venire a ucciderti, arrestarti o a pisciarti sulla tenda.

E questo mio essere campeggiatore accidentale e improvvisato, in un luogo del genere, si vede. La mia tenda è grande quanto una vasca da bagno al contrario, non ho nemmeno una sedia, o un cavo per stendere il bucato, né tantomeno un bucato da stendere. In effetti sto pagando solo per concedermi due cose che nei giorni precedenti non sono riuscito a fare senza rischiare una denuncia: montare una tenda in una proprietà privata, e farmi un paio di docce come si deve. Il mio essere approssimativo si vede, dicevo, perché sono circondato tutto intorno da un ecosistema di camper ed enormi tendoni per reggimenti che fanno pensare di essere in un insediamento permanente, abitato da gente che sarà in vacanza per sempre in tende che a vederle potrebbero avere addirittura le fondamenta.
Probabilmente, per sentirsi come se fosse davvero la loro seconda casa, i campeggiatori attrezzano e accomodano il proprio alloggio con milioni di gingilli e accessori, tubi e tendine, pentole e bacinelle, sedie pieghevoli e tavoli richiudibili, moquette, amache, materassini, piscine gonfiabili, schermi a led, parabole satellitari, basi di lancio per satelliti televisivi, moduli lunari e supersantos. E così ti ritrovi in un luogo protetto da una cupola enorme, sofisticata e invisibile. Una cupola messa lì a proteggere la routine quotidiana dei campeggiatori da ogni minima infiltrazione, ad evitare ogni fastidiosa variazione alla vita di sempre. Se ci rifletti un secondo, stai zitto e ti guardi intorno, ti accorgi che la cupola rende quell’habitat impermeabile alla vacanza.


Ad ogni modo, mentre sei lì seduto a cercare di vedere questa cupola e di apprezzare la rassicurante tranquillità che ti circonda, parte il rave. La voce è entusiasta e invita la gente ad avvicinarsi, parla a ritmo con la musica finto latinoamericana, e tutto insieme è il rito esplosivo dei balli di gruppo, celebrato ad un volume da conflitto termonucleare.
Mi alzo in piedi e guardo nella direzione da cui proviene il tutto. Non vedo niente e decido di avvicinarmi, convinto che, come al solito, il mio relativismo mi farà giustificare anche questo.
E invece dev’essere successo qualcosa ultimamente, perché quel relativismo a cui sempre mi ero affidato comincia a vacillare, e arrivato di fronte ai balli di gruppo, partecipati esclusivamente da bambine e da qualche over 50, lo sconforto mi prende.
Un semicerchio di famiglie monofiglio stanno sedute a tavolini di plastica vuoti. Il padre al cellulare, il figlio pure, la madre guarda chi balla e muove le spalle, non volendo arrendersi al fatto che anche quest’anno le vacanze non rappresenteranno alcuna rivincita sulla vita (né tantomeno sul resto dell’anno).
Calci e pugni all’aria, piroette e ancheggiamenti, tutto lentissimo. La musica e la voce dell’animatore sono ovattate e indistinguibili. Manca solo che mi si annebbi la vista. Un paio di minuti di realtà in slow-motion valgono come una settimana, così mi giro e mi allontano.

Tornando dalle parti della mia tenda (che quasi devo cercare con le mappe, non riesco mai a ricordarmi dove sia), imbocco uno dei vialetti tra i camper e gli oleandri. È una stradina corta e buia, sicuramente è quella sbagliata, ma non posso ancora dirlo perché non si vede una mazza. Un’unica luce in fondo, sparatissima, permette di distinguere la sagoma di una signora bassina che si avvicina. Come molti, a quell’orario raggiunge la sorgente della musica alle mie spalle, per stare seduta anche lei, con il suo vestito nero a fiori, ad un tavolino di plastica bianca di fronte al bar guardando la gente che balla come se fosse la televisione.
La sagoma della donnina mi si avvicina e sembra non voglia affatto procedere oltre. La osservo camminando sempre più lento, fino a fermarmi nel buio e nella musica lontana. Forse la spaventa trovarsi davanti un tipo minacciosissimo come il sottoscritto, in un vialetto di un campeggio male illuminato. Non faccio in tempo a pensarlo che lei mi smentisce, avvicinandosi sicura e con un sorriso malizioso. La saluto, cercando complicità. Lei mi fa cenno di abbassarmi, come se volesse sussurrarmi all'orecchio qualcosa, e a voce sommessa mi domanda:

- La vuoi anfetamina?

Sgrano gli occhi d’un colpo. Non tanto per poterla vedere meglio, ma piuttosto per metterci dentro tutte le risate che sono costretto a trattenere. Mica puoi scoppiare a ridere in faccia a qualcuno così avanti negli anni. Non si fa. Cerco di guardare brevemente oltre, per capire da dove sta arrivando questa donnina, ma non vedo niente di insolito, ci sono tende e camper al buio, con qualche lampadina accesa all’interno. Un po' oltre si intravede qualche tv accesa e una luce per le zanzare. Poi i pini finiscono e comincia la cupola invisibile. A quel punto inizio a temere di non avere la più pallida idea del posto in cui mi trovo.

- Non sono sicuro di aver capito signora, lei mi sta offrendo delle anfetamine?
- No, che offrendo. Te le vendo!