5 gennaio 2016

Divieto assoluto.

Il testo seguente fa parte di "Questo posto non esiste", una serie di brevi diari raccolti a luglio 2015, quando sono uscito pazzo e sono andato in Basilicata a vedere se era vero.


La prima notte mi fermo nell’ultimo paese della Calabria prima della Basilicata, sulla costa ionica. Dopo aver guidato centomila chilometri di strade meridionali sono ossessionato da un’unica cosa, da un ago che mi penetra la corteccia e mi tatua nel cervello un'unica paranoia a caratteri cubitali: come diavolo si richiude la tenda Quechua che ho appena comprato? Ad aprirla è facile, lo sanno tutti, la scarti e la butti via, come quando sei bambino e Babbo Natale ti porta un maglione. Ma che cosa nasconde questa iniziale facilità? Quale subdolo inganno si pone davanti al campeggiatore di città che, appena sveglio al mattino, deve richiudere il suo rifugio piegandolo in una sacca dieci volte più piccola?
Tu, campeggiatore trentenne, che hai deciso di mandare tutto a quel paese e partire in tenda, nella libertà di un viaggio autentico ed essenziale. Tu, che ce la puoi fare a sopravvivere da solo, senza nemmeno Airbnb, viaggiando in macchina e fermandoti dove vuoi. Tu, che meno male che c’hai Google Maps sul cellulare e che esiste Decathlon a venderti cose per fare il campeggiatore abusivo senza troppi pensieri. Perché ok con questa storia di Into the Wild, ma piano piano. (Che poi, a pensarci bene, è proprio il motto di Decathlon: “Va bene fare Into the Wild, però senza menate”). Tu, che ti affidi ad una tenda che si monta da sola e che non ti richiede nessuna esperienza, nessuna competenza e ti permette pure di decidere dove dormire quando ormai è buio. Ecco, tu, cioè io.

Insomma, guido e sta facendo buio (non è vero, mancano ancora due ore ma io preso dall’ansia decido che sta facendo buio) e quindi, visto che tutto sommato sono molto vicino a dove ho appuntamento domani, decido di fermarmi, sul mare.
E quindi il fatto che sia l’ultimo paese della Calabria prima della Basilicata è un caso, non una scelta. Potrebbe sembrare una cosa romantica, visto che la mia meta è proprio la Basilicata, il suo territorio, il suo isolamento, il suo non esistere. Potrebbe sembrare una scelta appassionata, fermarmi per la notte prima di cominciare tutto, proprio nel punto prima che tutto cominci. E invece no, è successo a culo, però lo scrivo lo stesso.
A Rocca Imperiale c’è un’enorme spiaggia di sassi, chiusa tra il mare e una piccola pineta. Non c’è quasi nessuno e la pineta sembra proprio il posto giusto per provare il mio essere campeggiatore di città.
Fermo la macchina, scelgo il posto più adatto e mi sento gasatissimo, perchè è proprio perfetto, comodissimo, all’ombra, appartato ma non troppo lontano dalla civiltà e sotto un cartello piccolo ma chiarissimo: divieto assoluto di campeggio. Cazzo.
A parte il fatto che vorrei capire quale sarebbe poi il divieto relativo di campeggio, ma comunque non è questo il caso, questo è un divieto assoluto, evidentemente. Non si scappa. Se monti la tenda in un posto del genere, o anche se lasci che si monti da sola, come nel mio caso, infrangi una legge, una norma esplicita.
Mi guardo intorno e continua a non esserci nessuno. Mi prendo le mie responsabilità e decido di essere un criminale a Marina di Rocca Imperiale.

Scarto la tenda, la lancio e non succede niente. Ammetto di averla lanciata anche con un pò di paura, come quando accendi un petardo. E come un petardo difettoso la tenda vola a terra e non si apre, non scoppia. Mi avvicino e gli do un calcetto con la punta della scarpa. Niente. Allora mi abbasso e la aiuto, e lei, inizialmente timida, si apre davvero. Una volta che è completamente aperta e meravigliosa arriva finalmente l’attesissimo momento che aspettavo da quando l’ho comprata, poche ore prima in un Decathlon a Milazzo: la devo chiudere. È questo il banco di prova, ed è una prova che devo vincere subito, anche perchè non voglio rischiare, la mattina successiva, di aumentare il ritardo in cui già sicuramente sarò, e di trovarmi costretto ad infilare la tenda intera e gonfia sul sedile posteriore della Kia, per poi scappare verso l’Ente Nazionale Energia Atomica sollevando tutta la polvere di quella strada senza asfalto. Oddio, a pensarci sarebbe una scena bellissima.
No no, la devo chiudere comunque. La devo chiudere istintivamente, senza pensarci. Niente. La devo chiudere seguendo le chiarissime vignette d’istruzioni allegate. Tipo quelle che si trovano in aereo e che ti invitano a farti di colla in un sacchetto, scalzo, mentre si accendono tutte le luci intorno e poi tutti sullo scivolo! Impossibile. La devo chiudere guardando un video per deficienti su youtube, e alla fine ce la faccio.

La guardo lì per terra e rifletto di tutta questa mi urgenza a capovolgere una cosa facile. Ti viene davanti una cosa facile e tu subito vuoi il rovescio. Perchè io forse ho sempre preferito pensare che ogni rovescio ha la sua medaglia.
E quindi è bello pensare che una tenda che si richiude in maniera apparentemente molto complicata la apri subito.
Come se il senso di tutto, da quando l’ho comprata quella tenda non fosse davvero il semplificarmi le cose, ma vedere se davvero riuscivo a non complicarmele.

Nel cuore della notte non so per quale ragione mi sveglio, e direi quasi completamente addormentato vedo un’ombra intorno alla tenda.
Fuori c’è la luna, o qualche lampione, o non lo so e non me ne frega. Però vedo quest’ombra che passa vicino e sento le pietre che sfriggono sotto i passi leggerissimi di qualcuno. E penso se sia il caso o meno di cagarsi addosso. L’ombra a quel punto, proprio mentre sto decidendo, scuote la tenda, più o meno in un angolo, e sembra lo faccia come se fosse un tamburello, facendo un rumore cupo di nylon. Protendo quindi per la mozione caghiamoci addosso e inizio ad agitarmi, innervosirmi. Accendo la torcia, lancio due voci verso il fuori di quel guscio piccolissimo che mi separa dalla notte, fuori da quella crisalide che fa finta di proteggermi con tutte le sue forze, quando in realtà mi sta solo nascondendo il mondo tutt’intorno. Dopo tutto è la sola protezione che mi può offrire, con rammarico.
Nessuno mi risponde e decido di uscire fuori, qualche minuto dopo. Giro intorno alla tenda come se qualcuno potesse nascondersi lì dietro, ma inspiegabilmente non trovo nessuno. Controllo e il mare è sempre lì nonostante il buio, si sente. Me ne torno a dormire e penso se valga così tanto la pena dare tutta questa fiducia al mondo intorno, affidarsi così tanto a un insieme di cose che tutto sommato non ha nessuna ragione per volerti bene.
La mattina dopo, mentre ormai, espertissimo, mi accingo a ripiegare la tenda, vedo che il punto in cui era stata scossa era bagnato. Mi abbasso per guardare meglio e intuisco che non è acqua. Prendo un fazzoletto, ci asciugo il telo e me lo avvicino alla faccia, capendo finalmente ciò che la crisalide mi aveva saputo soltanto nascondere senza impedire che succedesse. Un cane è passato, si è avvicinato, ha annusato gli alberi tra cui dormivo, ha annusato il rifugio impermeabile che mi raccoglieva e ha pensato bene di pisciarci sopra, come piscia ogni mattina sugli angoli di tutte le case che incontra.
Si è trattato certamente, penso, di un cane calabrese che passa le notti segnando i confini del suo territorio, per poterlo riconoscere e proteggere. Oltre quelle urine inizia un mondo sconosciuto.