9 febbraio 2016

Poeti e navigatori.

Il testo seguente fa parte di "Questo posto non esiste", una serie di brevi diari raccolti a luglio 2015, quando sono uscito pazzo e sono andato in Basilicata a vedere se era vero. 


Mentre guido cerco di ricordarmi la ragione per la quale sto andando a Castelgrande, il motivo per cui ritardo ancora la mia uscita dalla Basilicata. Non che poi quest’uscita voglia dire molto, è di certo solo una cosa psicologica, catartica, però vuoi mettere, di sti tempi, a trovare una cosa catartica che veramente funziona?
Me lo ricordo quasi subito di che si tratta. Si tratta di stelle. C'è questo posto in cui si dice che di notte c'è il buio vero e puoi vederle come in nessun altro posto, tanto che ci hanno costruito questo grande osservatorio astronomico, a mille e duecento metri di altezza, perché “il contesto ambientale, privo di inquinamento atmosferico e luminoso ha contribuito a creare le condizioni ideali per l’approfondimento dell’astronomia”. Suona detta da un politico, più che da uno scienziato, e difatti è dagli anni sessanta che tutti quanti sono lì a dire che figata ci facciamo il più grande centro astronomico d’Italia, d’Europa o magari d'America. E ce la mettono tutta, ogni giorno, per riempire quelle alture di ricercatori, astronomi e astronauti, ottenendo però a quanto pare tutt’altri risultati.
È successo infatti che mentre gli anni passano e le strade del paese continuano a non riempirsi di scienziati, a Castelgrande nascono e crescono generazioni di poeti e di navigatori abilissimi, che come si sa diventano tali a furia di guardar le stelle.


E quel cielo che non viene quasi mai studiato resta comunque sempre lì a disposizione, istruendo una quantità sempre crescente di innamorati, aspiranti esploratori, cuori infranti, ambiziosi avventurieri e animi sensibili in genere. Dove non è arrivato il progresso, è comunque rimasta la contemplazione. Ed è giusto pensare, ancora una volta, che è il territorio che plasma le persone. E lo fa in silenzio, anche contro il loro volere, prendendosi forse la rivincita per tutte le volte in cui succede il contrario.
Così oggi Castelgrande, comune dell’entroterra montuoso lucano, pur non essendo diventato un centro astronomico di livello internazionale come sperava, può vantare il rinomato Circolo di Vela e Navigazione Astronomica “Amerigo Vespucci”, e la sede dell’Associazione culturale “Lo Spazio Poetico”, dove ci si confronta su composizioni che hanno per temi principali la fuga, l’infinito e l’adolescenza negli anni settanta. Che comunque sono cose.

Chiaramente un posto del genere ti dà molto da pensare. Ad esempio, un luogo così tanto buio di notte sarà assolatissimo di giorno. Magari è una fesseria. Però io ero lì negli stessi giorni in cui l’estate nelle grandi città nutre la frustrazione di chi lavora, in cui i vecchi muoiono di vecchiaia e i telegiornali dicono che è stata l’ondata di caldo. E quindi al sole, un po', ci pensavo.
A dire il vero non sono una persona che lo patisce, il caldo. Tanto che quello enorme, soffocante, che c’era quando sono arrivato me lo ricordo non tanto per il sudore, l’afa e il disagio. Non sono stati quelli a diventare memoria, quanto l’enorme sollievo, quasi incredulo, che ho provato alla domanda: “Robè, te lo vuoi fare un tuffo?”.
Il tipo che incontro a Castelgrande si occupa di tante cose pubbliche in paese, e non è il sindaco. Tra le tante gestisce la piscina, credo comunale, alle porte del centro abitato. E’ un tipo sorridente ed estremamente ospitale, sebbene sia preso da mille pensieri.
Il mare è lontano centinaia di chilometri, guardo alle sue spalle e tutto è celeste e bianco, cemento bagnato e piastrelle lucide, e l’acqua sembra la più fredda di sempre. Certo che lo voglio fare un tuffo, ed è quello che ancora mi ricordo.

Due ore dopo sto seguendo una macchina della polizia municipale che mi fa strada verso una località sperduta e brulla, dove c’è appunto il grande osservatorio.
Quando arriviamo lasciamo le auto e chiedo al vigile che mi ha fatto strada se può raccontarmi un pò la storia di quel posto, per come la conosce. La sua risposta è lenta, cadenzata, forse svogliata, a farmi intendere che in fondo è una storia ovvia, fatta di desideri e di mancanze, di grandi paesaggi e di un progressivo lasciar perdere. Nel frattempo fa scorrere un grande cancello di metallo, e la storia inizia a procedere al di là, attraversando lenta, insieme a lui e me, un piazzale enorme. Poco dopo, quando si apre il portone d’ingresso, i nomi e le inaugurazioni ci precedono all’interno, e mentre camminiamo in grandi corridoi, saliamo scale e accendiamo luci le vicende occupano ogni spazio, prendendo la forma che trovano. Man mano che entriamo nelle stanze la trama inizia a rarefarsi, ripetersi e diluirsi, e i vuoti degli ultimi anni si sovrappongono ai vuoti dei laboratori e degli uffici, arrivando pian piano al telescopio, spento e coperto. A quel punto il vigile se ne va via, nel silenzio che lo ha contraddistinto sempre, lasciandomi lì da solo per tutta la notte.

Immaginavo di poter finalmente vedere il buio vero, in un posto del genere. Di poterne avere paura e magari di volerlo anche fotografare. E mi chiedevo se si può vedere il buio se non si vede niente. Come posso dire di aver visto il buio assoluto senza il sospetto, invece, di non aver visto proprio nulla? Come faccio a distinguere una cosa che si manifesta totalmente indistinguibile? Ah non lo so mica, ma proprio per questo sarà di certo un elemento risolutorio, fonte di serenità e sollievo, angoscia e panico. Sarà sicuramente un buio rivelatore!
Così mi siedo su una di queste panchine messe lì intorno e guardo il tramonto fino alla fine, fino a che non ce n’è più e inizio a sentire freddo. E sto lì a guardarmi intorno, sapendo che dovrebbe proprio succedere qualcosa da un momento all’altro, e invece non succede niente. Il buio arriva e, ancora una volta, mi ci abituo.