15 giugno 2016

Di quando ho scritto un testo introduttivo e poi non era vero.

Tempo fa le amiche di Everyday_Italy (l'account instagram collettivo che, un fotografo alla settimana, racconta l'Italia in maniera figa) mi avevano chiesto di scrivere un testo introduttivo per una mostra che ci sarebbe stata durante FotoLeggendo, a Roma (festival che ha inaugurato la settimana scorsa). Io ho accettato, povere loro. 
Doveva essere un "intervento breve ma intenso, divertito ma romantico, scanzonato ma intelligente, sul tema di Italia, quotidianità, cellulari, comunicazione, digitale, collettivo, instagram e fotografia mischiato ovviamente a quello che ti pare". Io mi sono concentrato solo su "quello che ti pare" e ho scritto una cosa su Jovanotti (che alla fine, insolentemente, è andata esposta con le foto).

La mostra è stata spalmata con un allestimento fresco e informale sul Ponte degli Argonauti, alla Garbatella. Pare fosse qualcosa di bello, io non l'ho vista perché dovevo risolvere sta cosa del diventare padre, però magari è ancora lì, andateci. Ah, comunque quello che segue è il testo in questione.

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C’è una mostra di cose Instagram su di un ponte e io lo so che cosa stai pensando. No, non è vero, non lo so.
Però so che cosa sta pensando Jovanotti in questo momento, ovunque si trovi.  E in effetti non è così difficile immaginarlo, visto che da quando è diventato quarantenne non pensa più in maniera discorsiva, lineare, progressiva: Jovanotti pensa per elenchi. Quello che scrive è ormai un’enorme lista della spesa di cose che evocano in qualche modo ricordi, emozioni, desideri. Lui mica canta, sta lì e fa elenchi.

Quindi è presumibile che adesso sarà lì a dirsi, più o meno:

L'amore di una sera, gli amici di una vita,
la maglia dei mondiali scolorita.
Innaffiare le piante.
Una mamma, una figlia.
Un magnete sul frigo, la parmigiana di melanzane dentro.
Saltare la corda, comprare le patate.
Un rotolo di scottex.
Un cactus.
Il Big Bang.

Robe così, e la gente di solito ci si riconosce pure (perchè sì, è vero, oggi la gente si riconosce in quasi tutto).

Già, questo è una sorta di testo introduttivo ad una sorta di mostra fotografica sull’Italia. E parlo di Jovanotti qui soltanto perché mi sembra che, in generale in questo paese c’è un po’ di gente che gli dà credito. E io adesso - visto che devo pensare ad un testo critico su come si racconta l’Italia, sulle comunicazioni contemporanee, sull’impulsività dei social, sulla spontaneità decostruttivista della narrazione mitopoietica - voglio capire se Jovanotti c’ha ragione o no a parlare di questo paese spezzettandolo, isolandone gli elementi e mettendoli in fila.
Fatto. C’ha torto! Diciamocelo, il metodo Jovanotti fa cagare. É limitato, semplicistico e riduttivo. Per costituire un immaginario ne prende uno di partenza, lo mischia tutto, lo mette in fila un tassello accanto all’altro, e ciò che ne esce è uguale a quello di prima. Tipo il gioco delle tre carte, ma la posta sono i tuoi riferimenti culturali. Maledetto.

Io lo capisco che per narrare certe cose, tipo l’Italia oggi, o la nostra generazione (ognuno ha una sua generazione, quindi non ti sentire escluso), una strada buona sembra quella di lasciar perdere e mettere soltanto in successione gli elementi chiave. Però così ti arriva a casa un pacco pieno di pezzi numerati, una sorta di IKEA emotiva, in cui tu in qualche modo riconosci ogni pezzo e, anche se non sai di preciso che farci, sembra proprio che l’insieme sia destinato a te. E magari finisce pure che diventa la tua camera da letto.

E invece no.

Almeno per il tempo che ti serve a guardare questa serie di immagini, lascia stare le istruzioni IKEA e gli elenchi di Jovanotti. Non cercare il filo in un discorso fatto di punti, perché se lo cerchi vuol dire che lo conosci già. Sì ok, sono tutte foto sull’Italia, sulle città e la provincia, sul nostro tempo e il nostro mondo. Ma lascia perdere, non c’è bisogno di leggerci dentro questo racconto. Il bello di queste immagini è che, volendo, possono illustrare un’Italia possibile, e non necessariamente reale. Prese singolarmente magari documentano pure qualcosa, ma nell’insieme fortunatamente no. E non solo perchè arrivano da autori diversi, ma soprattutto proprio per quella storia della “spontaneità” di Instagram, che si basa quasi sempre su episodi, su piccole scene ed esperienze ristrette. E che, di conseguenza, richiede per forza a chi guarda - e meno male - un impegno a costruirsi in testa le storie che nelle foto non si vedono.
Insomma, non ti riconoscere in queste immagini, prendi i pezzi numerati per montare la camera da letto e facci una barca a vela. È così che viene fuori un immaginario nuovo, che tra l’altro in questo paese è una delle cose che serve di più.

Scusate, vi devo un testo introduttivo.

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