8 febbraio 2014

Plaza de Tonnos.

Foto di Luca Savettiere

A Palermo è caduto un palazzo. E fin qui, direte voi, niente di strano.

In effetti pare che non si sia stranito nessuno, in fondo è una questione di prassi. Nella maggior parte delle città si sprecano un sacco di energie e di risorse per abbattere edifici pericolanti, che invece - come si è ben capito qui - possono cadere da soli, autonomamente, in rilassatezza e senza alcuno sforzo. Non ha molto senso lavorare quando esistono la gravità e il tempo. Dopo tutto sia tempo che gravità regolano l’universo più o meno da sempre, e assecondare queste regole mi sembra sia un’ottima dimostrazione di sensibilità verso i principi della fisica (a Palermo si è molto più newtoniani che nel resto del mondo) e soprattutto della metafisica (a Palermo si dà peso al lavoro di dio e alle regole date da questi all’universo più che nel resto del mondo). Da questo punto di vista Dio qui gode di grandissima stima, avendo avviato un prodotto che poi va da solo, e rimanendo allo stesso tempo il legittimo responsabile di quell’attività. È diventato così un punto di riferimento da emulare; Dio, primo motore immobile e perpetuo, ma soprattutto immobile, ispira le giornate di moltissimi lavoratori. Motore immobile è ormai un mantra in moltissimi posti di lavoro.
Comunque, dicevo, questo abbandonarsi con fiducia alle leggi dell’universo senza avere l’illusoria pretesa di modificarle, qualcuno lo chiama senso di ineluttabilità, qualcun altro immobilismo, qualcuno ancora passività. Io credo che sia, alla fine, solo digestione lenta. Anzi, considerato il posto, digestione perpetua.

Insomma l’altra sera a ora di cena cade questo palazzo in piazza Garraffello che per coloro che non conoscono la città, si trova nel cuore della Vucciria. La Vucciria, per chi non conosce la città, ha una sua pagina wikipedia.
Nonostante la zona sia molto popolare e molto popolata, soprattutto di sera, non è successo niente di brutto brutto. “Per fortuna nessuno si è fatto male”. Io, per non sbagliare, sono sceso di casa per andare a vedere. Abito proprio a due passi, forse uno, e il mio vicolo, che di solito affaccia su corso Vittorio Emanuele, ieri sera affacciava su un raduno di vigili del fuoco e polizia, superato il quale effettivamente non c’era più un palazzo.

Passa la notte e la città reagisce, o meglio reagisce la comunità che la abita e la gestisce, isolando, senza alcun motivo apparente, la piazza in questione. In un modo considerato da molti surreale, ma che io trovo meraviglioso (frutto di una mente acutissima) si tirano su muri di tufo alti un paio di metri ad ogni accesso alla piazza. Così. Arrivano i muratori e iniziano a mettere i mattoni uno sopra all’altro, e tra i mattoni la calce, e alla fine c’è il muro, poi ce n’è un altro, poi ci sono le galline, poi tutti gli accessi chiusi, finché la piazza diventa praticamente inaccessibile. È una cosa di una meraviglia rara, proteggere la popolazione dal luogo stesso in cui abita, dalle proprie case, dal “pericolo” dei loro rifugi, alzando dei muri e creando il vuoto al centro.
- Questo luogo non è più sicuro e quindi tu giri a largo.
- E dove vado?
- Vattene a casa, vai a trovare riparo e a nasconderti dalle brutture del mondo.
- Ma casa mia sta lì, è quello il mio rifugio dalle brutture mondo.
- No, quella è una bruttura del mondo! Senti, lo facciamo per te, per proteggerti, per garantire la tua incolumità, il tuo benessere, il tuo sogno americano. Per farti sentire al sicuro quando torni a casa dalla tua famiglia.
- Ma sei scemo?
- Basta, chiamate la celere!

Andando oltre il semplicismo e la superficialità di una spiegazione che vede il Comune soltanto impotente nel ripristinare la sicurezza della piazza - per cui è meglio chiuderla col tufo, mettere dei cartelli, e se qualcuno si fa male è fuorilegge - io credo seriamente che il piano per Palermo sia ben diverso, ben più ambizioso.

Palermo ha finalmente la possibilità di essere al pari di altre città d’Europa. Si sfrutta questo evento fatale per rinascere e puntare ad essere una città nuova, una città virtuosa, una città che finalmente c’ha ragione.

Ho sempre creduto che questa città avesse tutte le carte per essere come Berlino, forse anche meglio: è una città economica, è totalmente accessibile - e intendo soprattutto nelle relazioni, nel tessuto sociale, si fa presto ad entrare nella vita della Palermo che ti interessa - gli artisti, i giovani e gli studenti si trovano una favola, puoi fare quello che ti pare, puoi essere inconcludente fino alla morte e nessuno ti dice niente, perché nessuno in fondo se ne accorge. Poi c’è tutta la storia del sole e del mare e, insomma, pensavo che Palermo potesse essere come Berlino per queste e altre ragioni. Il punto di vista dell’amministrazione comunale è invece evidentemente più storicista. La caduta di quel palazzo non è solo un crollo che ci poteva scappare il morto, è un simbolo, un segno. Disabitato e mezzo sfondato dagli anni della seconda guerra mondiale (e mai toccato da allora, pare), quell’edificio al suolo ci ha traghettato tutti, finalmente, verso il meraviglioso dopoguerra. Lasciamoci alle spalle le macerie dei bombardamenti, le icone dei fallimenti di un regime e guardiamo avanti. Da vinti, va bene, ma avanti. E se Palermo entra oggi nel meraviglioso dopoguerra e aspira a diventare come Berlino è ovvio che ha necessariamente bisogno del suo muro. Ha bisogno di un qualcosa da scavalcare, ha bisogno di essere divisa in maniera finalmente manifesta e reale. Da una parte la città moderna dei grattacieli americani di Ciancimino, dall’altra la Palermo di Ballarò e della stazione con i treni a diesel. Io da oggi in poi dovrei far parte della Palermo Est (non so ancora se per fortuna o purtroppo), abitando appena al di qua del muro. Non credo cambierà molto, considerando che la modernità occidentale in questo quartiere è sempre stata intesa in maniera piuttosto relativa, direi.

Mentre pensavo a Berlino mi accorgevo che l’idea reggeva fino ad un certo punto. Certo era un’idea valida, ma non all’altezza del motore immobile palermitano, che ti abitua subito all’inverosimile. E infatti, dopo non molto, inizia a girare la voce che, forse, la piazza non la chiudono tutta ma lasciano un accesso aperto, quello che arriva dal mare. Lì mi è stato tutto più chiaro. Niente Berlino. Se fosse vero, se murassero la piazza solo in parte lasciando un accesso libero - oltre a creare spasmi celebrali nel tentativo di capirne il senso per la sicurezza - quel luogo diventerebbe una sorta di sacco urbano, un contenitore chiuso con un’unica entrata/uscita costituita da una strada non molto larga e non molto dritta. In quel caso il piano diabolico e lungimirante che la città di Palermo ha pensato per se stessa, per svincolarsi dal passato e avvicinarsi al mondo fuori, non vedrebbe affatto Berlino come ispirazione, come punto d’arrivo. Ma Pamplona.
È ovvio e stupefacente, una rivisitazione della corsa dei tori di San Firmino, una tradizione presa in prestito dalla Spagna - tra l’altro i giorni sarebbero gli stessi del festino di Santa Rosalia, noto per analoga compostezza - ma al tempo stesso legata a ciò che è più nostro, ciò che appartiene più a questa terra e a questo mare. Già me li vedo i palermitani correre in massa dalla cala, dal mare, impauriti ed eccitati verso piazza Garraffello inseguiti da un banco di tonni incazzati e confusi. Tonni enormi e possenti come ne se ne vedono più, che travolgono tutto e tutti lungo via dei Cassari, fino ad arrivare in questo bacino enorme senza vie d’uscita, la Plaza de Tonnos, dove comincia una nuova mattanza contemporanea.

Io non lo so dove vuole andare Palermo, però mi chiedo che succede in una piazza quando la chiudi. La piazza l’hanno proprio inventata per essere una cosa aperta, per farci succedere cose che si possono vedere. Una piazza può andare bene anche vuota, ma dev’essere aperta. Se la chiudi non si capisce più. In una piazza chiusa che succede? O meglio, le cose che succedono in una piazza chiusa esistono sul serio? E dove esistono? È come una radio costruita senza altoparlante. Tu la accendi, giri i canali, magari è una radio ottima e riceve tutto alla perfezione, però boh.

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