4 febbraio 2013

Svegliami.



Sabato pomeriggio mio zio mi chiama e mi dice che il giorno dopo devo lavorare. Io sospiro, come tutte le volte. Lui dall’altra parte se ne accorge e, come tutte le volte, mi dice “Ragazzo, chi non lavora non fa l’amore…”, come se avesse appena detto una frase di Aldo Moro. Mi dà appuntamento alle dieci e mezza, dice di salutare i miei e riaggancia.

Mio zio ha una agenzia di onoranze funebri, e ci tiene a chiamarle così e in nessun altro modo, perché quando dici pompe alla gente gli brillano sempre un po' gli occhi. Non mi chiama spesso, di solito lo fa solo quando manca qualcuno dei suoi. E anche in quel caso non lo fa volentieri. Credo mi chiami solo perché sono a spasso e mia madre è preoccupata. E io accetto solo perché mia madre è preoccupata e io voglio continuare a stare a spasso per tutto il resto del tempo. Così mi tappo il naso per qualche ora, e faccio finta davanti a tutti di aver accettato l’abitudine che ha la gente di morire in continuazione.

Quando arrivo al mattino capisco che due di quelli che lavorano con mio zio, padre e figlio, ad un certo punto se ne devono andare, perché a mezzogiorno si sposa la cugina o non so chi, nella chiesa del paese accanto. E così fanno quello che devono fino al funerale, e poi se ne scappano di corsa al matrimonio, e fortuna loro che il vestito buono già ce l’hanno addosso. Al cimitero il morto ce lo porto io.
Mio zio mi dice che devo stare attento e guidare pianissimo, che l’ultima volta andavo troppo veloce, che la gente deve poter piangere senza preoccuparsi del morto che scappa, che ci vuole rispetto per il dolore delle persone. Dice che lui questa volta sarà dietro il carro a camminare in mezzo a tutti gli altri perché il tipo che è morto era il fratello di uno che lavora a Roma, il portaborse di uno stronzo qualunque. Dice proprio così.

In chiesa c’è tutto il paese e io mi metto fuori a fumare. Cerco un angolo all’ombra, non soltanto perché è agosto e si muore di caldo, ma soprattutto perché è agosto e mi sento un imbecille vestito così, e all’ombra mi pare di nascondermi.

Guido coi finestrini chiusi, quaranta gradi fuori e dieci dentro. Il cimitero sarà a nemmeno due chilometri, che però a questa velocità sembrano trenta.
Mentre mettevano la bara in macchina, fuori dalla chiesa, ho visto una mia amica che non piangeva. Aveva tutti intorno ma riusciva comunque a tenersi sola. Facevamo le medie insieme. Il tipo che è morto era suo padre, stava svuotando il capanno da roba vecchia quando sono usciti fuori una trentina di calabroni. Pare fosse allergico.
Non la vedevo da anni, era abbronzata e i capelli erano più chiari di come mi ricordavo. Le ho fatto un cenno con la mano, da lontano, e da dietro gli occhiali scuri un po' le ho guardato le tette. Lei ha risposto senza dire niente. I funerali ti mettono a nudo più dell’estate intorno, ti mostrano fragile e ti costringono a chiedere conforto anche se non vuoi. Mi sa che lei lo aveva capito e non reagiva a niente. Non era dolore, era sgomento, nel vedere che i funerali si fanno ai morti per i vivi. Credo che nessun morto abbia mai tratto alcuna utilità o piacere dal proprio funerale. È una di quelle cose che servono alla città intorno per entrarti in casa e dirti non ti preoccupare tanto ci sono io, adesso puoi piangere, oppure adesso puoi crescere, o adesso puoi essere finalmente felice. Sono riti che la società organizza per sé stessa, e chi sta in mezzo - non importa se col vestito scuro o con l’abito bianco - diventa strumento, pretesto.
Nello specchietto vedo una serie di donne vestite di nero con la bocca aperta, circondate da uomini che sudano, tra cui mio zio. Pregano e piangono ma resta tutto fuori da questa macchina, dentro non si sente niente, a parte il freddo dell’aria condizionata. Metto una mano sotto al sedile del passeggero e tiro fuori l’ipod.
Mi infilo un solo auricolare e metto a caso una selezione che avevo fatto chissà quando. Parte quell’album dei CCCP che non mi ha mai convinto, ma dove c’è la canzone che è sempre stata la più bella di tutte. E intanto penso a che rumore possono fare trenta calabroni quando sai di essere solo ad agosto.

Non alzo troppo il volume, quasi con la paura che da fuori sentano, e butto ancora un occhio allo specchietto. La fila di gente scura è sempre lì, e in mezzo ci vedo pure la mia amica. È senza occhiali da sole e muove le labbra come tutti gli altri ma fuori tempo rispetto al gruppo, senza guardare né in basso né in cielo. Guarda dritto verso di me, occhi fissi, come se volesse entrare in macchina piano piano, dove c’è finalmente freddo, lasciare fuori il caldo torrido del funerale, l’afa della compassione.
La fisso anche io, tanto la strada fuori è dritta e ferma. Tutto intorno è completamente giallo. Lei continua a muovere le labbra e mi sembra quasi che ce l’abbia con me. E alla fine della prima strofa diventa chiaro, me ne accorgo davvero e per un momento ho i brividi. Alzo la musica per ascoltare meglio le parole e mi giro verso di lei per leggergliele sulla bocca. “E non c’è modo di fuggire. Svegliami, svegliami, svegliami.”

2 commenti :

boccaccino ha detto...

CCCP - Svegliami. Per ogni evenienza. http://bit.ly/14J6oxO

Luca ha detto...

Lo stanno leggendo su Controradio in questo momento ;)