Tutto sommato non è così importante, io ai fantasmi c’ho sempre creduto. In fondo mi pare una cosa ragionevole che quando lasci uno spazio vuoto, quello, per qualche ragione non rimane vuoto per sempre. E Craco, vista l’evacuazione generale, ha iniziato a contrarsi e piegarsi su di sé, tanto per non perdere tempo e riempire quella cavità.
Oggi accedi al paese soltanto se fai un biglietto da dieci euro, che ti dà diritto ad un caschetto giallo e ad una visita guidata di un’oretta in un percorso messo in sicurezza. Oppure, se sei in viaggio da solo, in tenda, se non vuoi sottostare alle regole che il brutto mondo adulto ti impone, e se ti sei convinto di essere onnipotente, puoi sempre aspettare che l’ultima visita finisca, che l’ultimo gruppo torni al tramonto, che tutti se ne vadano a casa, per salire zitto zitto un sentiero che ti è stato indicato da gente del posto conosciuta il giorno stesso, infilandoti sotto una rete che sai di poter sollevare, e arrivare dentro. Tu e il Padreterno, su un picco diroccato in mezzo ad una vallata enorme. Ettari ed ettari di terreno coltivati a solitudine, e quando inizia a calare la notte te ne accorgi subito perché ovunque guardi non c’è niente che provi a contrastarla.
Quando riscendo giù è ormai buio pieno e mi avvicino al furgone dei panini (che si chiama molto trasgressivamente “Panini”) l’unico posto dove c’è qualcuno. È parcheggiato lì ogni giorno, immediatamente fuori dalla zona recintata, fisso nonostante il suo essere un furgone, fregiandosi di costituire l’ultimo baluardo della vita in quel deserto, e in qualche modo di proporre tutto quello che il paese offriva e ormai non offre più. Certo, vedendo “Panini” uno si fa l’idea che anche da vivo il paese non dovesse offrire poi tanto, perchè a parte la porchetta cecoslovacca e i gelati Sammontana, vende solo birra. Però è comunque un posto bello, punto di riferimento delle venticinque persone che abitano nelle palazzine della zona nuova, fuori dal centro storico crollato (i pochi sfollati che non sono evacuati in un nuovo insediamento).
In giornata ho avuto tempo di conoscere diversi soggetti che bazzicano lì intorno. Rocco è un personaggio dall’età indefinibile, con una bandana americana sulla fronte, un codino e una Dreher. Esattamente a metà tra Hulk Hogan e Benny Hill mi dà subito confidenza, malcelando sorpresa e vanità di fronte al mio interesse a ritrarlo. C’è poi il proprietario della magnifica attività, un ragazzo più o meno della mia età, gli occhiali da sole con i brillantini, una maglia rosa e una pettinatura tipo gomorra. È l’imprenditore del posto, il lungimirante uomo d’affari, il monopolista dei bar e della ristorazione che su un furgone fa girare l’economia a Craco. A lavoro non c’è mai. Suo padre è invece sempre lì, con la sua corporatura piccola e nervosa, i suoi occhiali, i baffi grigi e i denti drittissimi, evidentemente non suoi, grandi e un poco gialli. Si dà molto da fare, e parla con un accento del nord che enfatizza un’innata cortesia nei modi. È quello che mi ispira più fiducia e quando devo chiedere qualcosa chiedo a lui. Sembra il più equilibrato, tra tutti, in quel paese che vive solo del suo vuoto, dei panorami che ti fanno sentire lontano e dei continui incidenti stradali su strade inesistenti che ti costringono a rimanerci, lontano.
Quella sera intorno al furgone, mentre Salvo, un ragazzo loquace, alticcio e preso bene, cerca di convincermi a tutti i costi ad andare con lui per una serata indimenticabile; mentre Rocco, già ubriaco, si chiude una mano nella portiera della macchina che non si apre più, restando lì in piedi singhiozzante e immobile; mentre il buio avvolge tutto e “Panini” diventa l’unica ragione per cui essere lontano non significa essere persi, il piccolo uomo con i baffi mi racconta della sua vita passata. E io ripenso ai fantasmi.
Viveva a Torino, c’era rimasto tanti anni per lavorare, e stava bene, fino a quando dei miei paesani lo hanno costretto a fare una cazzata. Gli chiedo chi fossero questi miei paesani, un po' innervosito nel vederlo così sicuro sulle mie origini. E a quanto pare si riferisce a dei miei strettissimi congiunti di Corleone, che avevano trattato poco bene non so se sua madre o sua sorella, o la moglie, o la figlia. Vabbè non mi ricordo, comunque una femmina di primo grado.
Fissandomi con gli occhi ingigantiti dagli occhiali spessi mi dice di un crescendo di provocazioni, dei giorni che si sovrapponevano, della periferia torinese che era tutta aperta, come il far west, e della fabbrica che ti faceva essere un operaio mentre fino a quel momento eri stato solo uno che faticava. E mi racconta della dignità, che è una cosa che senti tu, e del rispetto, che è una cosa che pur dovranno sentire gli altri.
Così un giorno, dopo una discussione in cui questi uomini avevano detto, andandosene, “Poi sempre ti veniamo a prendere”, lui pensò “Ma perchè poi? Risolviamola ora, non voglio stare col pensiero”. E così si videro in un parcheggio, dove lui gli sparò, e nessuno morì.
Ancora oggi mi immagino quella vicenda come un duello, a mezzogiorno, in una zona industriale qualunque fuori città, assolata come se non fosse Torino, con la sirena di una fabbrica che fa da orologio, nessuno che dice una parola, e il primo a sparare è la persona più tranquilla con cui ho passato quella sera.
Mentre quel piccolo uomo mi racconta del carcere e del suo ritorno al sud, Salvo non la smette un secondo di parlarmi, in sottofondo, domandandomi cose e tracciando prospettive fantastiche sull’eventuale serata che avremmo fatto. Si rivolge a me senza sosta, come se non si sia accorto che sto parlando con qualcun altro. È un ragazzo gentile, buono, lasciato solo dalle strade lì intorno che pian piano si sono prese il padre e il fratello. Credo tenti di essere il più accogliente che può, ma risulta goffo e tenero, e quasi confonde la disponibilità con la costrizione. Continua a dirmi che devo bere qualcosa, dai, è sabato sera, che dobbiamo uscire e andare insieme a fare un giro, ho il motorino, ti porto a Metaponto, e le belle foto che potrai mai fare, e l’alba quando saremo tornati, sulla torre di Craco.
Onestamente ancora oggi mi chiedo la ragione del mio rifiuto. Quando in passato mi sono capitate offerte del genere sono quasi sempre andato a vedere. E spesso ne è valsa la pena, trovandomi a fare esperienze non sempre piacevoli, ma ogni volta vere, ogni volta da raccontare. Gli dico che sono in viaggio da tanto e che mi sto dedicando al mio lavoro, al mattino mi sveglio all’alba e sto bene. Non voglio interrompere questo flusso di cose, mi piace restare a lato di tutto, per questa volta. Gli prometto che la prossima tornerò con una testa diversa e ce ne andremo a bere insieme da qualche parte. Lui annuisce in solitudine, deluso, ma senza smettere di sorridermi.
La mattina dopo mi sveglio di nuovo in tenda. L’ho piazzata nel giardino di una palazzina, montata in piena notte, proprio di fronte all’ingresso. Mi avevano detto che lì potevo farlo, che non sarei stato un fastidio per nessuno. Nonostante le rassicurazioni, nel momento di aprirla ero solo, davanti ad un caseggiato popolare, a disagio, fuoriluogo.
Mi sveglio con la sensazione di non sapere davvero cosa ci sia fuori. Ho passato la sera precedente a parlare con una persona probabilmente invisibile e a convincerne un’altra di essere invisibile io stesso. Appena metto la testa fuori Rocco si avvicina, forse stava aspettando lì che mi svegliassi. Lo fisso sorpreso, è molto presto e mi chiedo se sia mai andato a dormire. Si abbassa vicino e mi dice che Salvo ha avuto un incidente in moto mentre tornava a casa quella notte. È in coma.