19 gennaio 2016

Mondo Lepre.

Il testo seguente fa parte di "Questo posto non esiste", una serie di brevi diari raccolti a luglio 2015, quando sono uscito pazzo e sono andato in Basilicata a vedere se era vero. 

 
L’altro giorno ad Aliano ero seduto ad un tavolo di plastica messo sul marciapiede, tentando di scrivere una cosa tipo quella che sto scrivendo ora, ma senza riuscirci poi tanto. Un vecchio, accomodatosi lento sulla panchina di fianco, mi guarda e mi chiede una cosa qualunque, tanto per fare conversazione. Naturalmente questa conversazione vuole essere principalmente votata al capire chi io sia, che ci faccio da solo in un luogo di confino, dove vado e soprattutto da dove arrivo.

Evase queste veloci pratiche di presentazione, tocca a lui raccontarsi, e chiaramente non vede l’ora. In un primo momento, pur avendo subito inquadrato il pericolosissimo soggetto, mi soffermo incuriosito e speranzoso. Dopotutto uno che lo fa a fare un viaggio da solo se poi non si mette ad ascoltare un vecchietto che ti vuole dire la sua.
Dopo trenta secondi mi accorgo a) che non stavo capendo assolutamente nulla di quello che diceva; b) che lui non aveva alcun bisogno che io capissi nulla. In realtà il suo non voleva affatto essere un dialogo, e tutto sommato nemmeno un monologo. Erano delle riflessioni e dei ricordi che finalmente poteva richiamare a voce alta, e tanto gli bastava. Se poi io non accennavo la minima intesa poco importava.
Dopo un po' mi stufo di stare lì a guardarlo senza capire niente, e inizio ad annuire abbassando sempre più spesso gli occhi sul mio taccuino, scollegando lentamente l’audio. Ma, proprio mentre comincio a formulare pensieri autonomi e svincolati dalla sua voce, sento delle robe che iniziano ad avere un senso. Succede tutto in pochi istanti, proprio mentre sto perdendo totalmente la concentrazione: la mia mente pesca tra quello che le era arrivato poco prima (e che io onestamente credevo già rimosso), e mette tutto insieme alle ultime frasi. Piano piano mi si forma davanti una storia che probabilmente ha un suo immaginario, coerente e fantastico.

Il buon vecchio mi dice che è stato in Sicilia, da giovane, da soldato. Capisco in qualche modo che si tratta della fine della seconda guerra mondiale, ma lo capisco a fatica. I suoi racconti, probabilmente per via dell’età - che quando è troppa sembra essere di nuovo troppo poca - non pare parlino veramente di conflitto, di fame e di carri armati. La storia che viene fuori è tutta strana, surreale, ambientata in luoghi dai nomi fantasiosi e i cui protagonisti sono persone dalle caratteristiche grottesche. Sembra il Signore degli Anelli, ma senza il minimo senso del tempo. Personaggi amici citati molte volte all’inizio e poi morti - morti in mezzo agli altri, durante vicende poco chiare in villaggi inesistenti - che ritornano in scena come se niente fosse qualche minuto dopo, in quello che secondo il nostro narratore sarebbe l’epilogo. Dico sarebbe perché l’epilogo per certi narratori non arriva mai.
E il contesto di tutte queste trame che si avvicendano è un’estesissima guerra che sembra avvenire altrove. Ma non c’è da stare tranquilli perchè questo attacco e questa liberazione stanno arrivando anche in Sicilia, si avvicinano, si attendono. Una guerra dal cielo, dal mare e dalla terra, che giunge silenziosa ed esplode immediata: l’invasione degli americani. Anzi, scritto grosso e pronunciato lento lento: L’ I N V A S I O N E  D E G L I  A M E R I C A N I !
E queste meravigliose memorie che quel vecchio produce e mi consegna nello stesso momento sono molto più vicine alla guerra dei mondi che non alla storia di quegli anni. A sentire lui lo sbarco in Normandia dev’essere stata come la collisione tra due Soli lontanissimi, uno scontro di cui tutti avevano visto il bagliore e aspettato l’onda d’urto. E i suoi racconti hanno un equilibrio strano, perchè mentre dà forma a questa fantascienza anni '40, mi parla di Zito e Rinaldi, due ragazzi sudici ma buoni spediti come lui alla guerra, e che come lui sembravano essere lì soltanto per vederla arrivare, meravigliarsene e saperla raccontare. Tipo tre hobbit.

Ormai ascolto in silenzio e continuo, questa volta per estasi, a non dare nessun tipo di segnale al mio interlocutore, che intanto prosegue senza problemi ad essere interlocutore solo di se stesso. Se trovassi il modo di inserirmi gli chiederei di più dei luoghi in cui avviene tutto, e soprattutto dei loro nomi, che sono una delle cose che mi fa più sorridere: tutti i posti che cita hanno nomi di boschi elfici. Tutti boschi elfici siciliani, chiaramente. C’è Canicattivi, o Favarava (all’imperfetto). C'è Bellastrada, e soprattutto c’è Mondo Lepre.
Non lo correggo mai, anche perché in una storia del genere non c’è nulla da correggere. Ma lui, in un momento di pausa, mi nota forse scettico e mi dice sospettoso: “Tu non sei pratico della Sicilia, tu non conosci i posti”. Io accenno una risposta timida, che un po’ invece sì, credo di conoscerli, almeno qualcuno.
Lui mi guarda da sopra gli occhiali appoggiati sulla punta del naso e alti sulle orecchie, e con rassegnazione scuote la testa, in silenzio.