6 ottobre 2013

Þingeyri.


A Þingeyri non ci sono ragazzi sopra i quindici anni. Non ce n’è nemmeno uno. La ragione è precisa, ed è la stessa per cui il paese è ancora popolato, nonostante tutto, dai ragazzini sotto i quindici anni: la scuola.
Lassù la scuola primaria si prende i bambini biondi a 5 anni e li restituisce mezzi adolescenti. A sedici anni comincia un’altra scuola, quella dei grandi, quella che fai vivendo in uno studentato lontano da casa, perché Þingeyri è troppo lontana. Così a sedici anni i ragazzi se ne vanno e difficilmente ritornano.
È un momento preciso, un piccolo balzo verso l’esterno, che in tante altre occasioni e in tanti altri luoghi può essere viziato e diluito da un anno sabbatico, da un vediamo come si mettono le cose qui e poi decido. A Þingeyri invece lo sai che a sedici anni non sarai più lì, perché funziona così, la scuola è fatta così e ha i suoi tempi, e tu con lei. Se cresci a Þingeyri diventi grande altrove.
E questo limite così netto tra infanzia e tutto il resto, tra nido e resto del mondo creava un tensione troppo forte per lasciarla perdere. Così, (come ho già detto meglio qui) mi sono andato a cercare il più grande tra i ragazzini, quello che si trova più vicino a quel limite, a quella frontiera. Il quindicenne che è al suo ultimo anno da bambino, e che dalla prossima estate sarà tra quelli che a Þingeyri non ci sono più, diventando anche lui parte die quell'assenza.

A Þingeyri non ci sono attrezzature, non ci sono mezzi. Voglio stampare fotografie grandi un metro per un metro e mezzo e il plotter più vicino è presumibilmente ad Amsterdam. Così mi guardo intorno e vedo una stampante in una casa, una stampante A4 in una casa grande come un A2. Niente inchiostro, però c’è mezza risma di fogli.
Il giorno dopo c’è una macchina che va a Ísafjörður, un posto a cinquanta chilometri di distanza che, oltre ad avere un nome che si fa fatica pure a pensarlo, ha anche una cartoleria. Mi infilo in quella macchina e vado bellamente a comprare una cartuccia di nero per la stampante e della colla stick. Scopro che in certi posti del mondo un chilo di salmone affumicato costa di gran lunga meno di un tubetto di colla stick, sul quale però - per fortuna, bisogna ammetterlo - ci sono dei simpatici pupazzetti di qualche cartone animato di cui mi riprometto di diventare fan a breve.
A sera torno nella caffetteria di Þingeyri, un piccolo fabbricato di cent’anni fa che ci fa un po' da campo base, accendo la stampante e le faccio sputare settantadue fogli bianchi e neri. Li numero, li guardo, mi fumo una sigaretta, e inizio ad incollarli piano piano, cercando di evitare il panico. Incredibilmente riesco a non sbagliare mai e vengono fuori due stampe da un metro per un metro e mezzo sulla via principale del paese. Amsterdam non sei nessuno.

A Þingeyri non ci sono immagini. Non ci sono cartelloni pubblicitari, non ci sono vetrine di negozi (in effetti non ci sono affatto negozi) dalle quali si affacciano sagome di modelli o di fesserie.
In un posto del genere l’assenza di immagini ha certamente ragione d’essere ma rendere quelle strade il teatro di loro stesse è una tentazione troppo forte, e così mi convinco che sarà lì che esporrò quel poco che ho fatto. L’intenzione è quella di attaccare le foto sulle case,  lungo la via che attraversa il paese, ma la pioggia permanente e la diffidenza della gente sono due buone ragioni per pensare che stampe così grandi e fragili non resterebbero appese a lungo. E finisce che uso i finestroni della caffetteria come fossero cornici sulla strada principale. Nessuno si ferma a guardare, ma tutti il giorno dopo mi sorridono.

Þingeyri è un luogo di assenze. Ma nonostante manchino persone, cose e immagini, Þingeyri resta un luogo, anche solo per il fatto che quelle assenze si avvertono, si vedono. Se sentiamo la mancanza di qualcosa (così pure quando quella cosa la desideriamo) vuol dire che quella cosa esiste, così come esiste Þingeyri. Ed esiste proprio intorno alle cose che non ci sono, un centimetro più avanti e più indietro, un attimo prima e un attimo dopo. 
È sul limite tra assenza e presenza che mi è sembrato bello poter lavorare, su quel momento e su quel punto in cui pieni e vuoti si definiscono a vicenda, perché si toccano. Raccontare quello che manca mostrando l’ultimo pezzo di quello che c’è.

La piccola esperienza che ne è venuta fuori è esistita solo perché esiste Þingeyri, nei suoi ragazzini all’ultimo anno, nei suoi fogli di carta A4 e nelle sue finestre sulla strada. Tutti elementi che costituiscono il contenuto, la forma e lo spazio di un lavoro che forse ha senso solo lì e che altrove scompare. Un lavoro che disegna contorni per mostrare il vuoto che questi contengono.

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