18 settembre 2013

vichinghi postmoderni.


Quando accendo il cellulare mi arriva un messaggio che dice “Sai che l’aeroporto in cui sei atterrato non è lo stesso da cui partiamo domattina?”. No, non lo so. È l’una di notte, sto aspettando la valigia rossa sul nastro e il mio piano di passare la notte su qualche panchina lì accanto va a puttane senza lasciarmi nemmeno il tempo di cambiare idea.
Agli arrivi mi dicono che sta partendo l’ultimo bus per la città, dico che devo raggiungere l’altro aeroporto, qualunque esso sia. Mi rispondono che a quest’ora è chiuso, però lì vicino c’è la stazione che è sempre aperta e che posso aspettare lì fino all’alba. Nella stazione? Siamo sicuri? E poi come ci arrivo in questo eventuale altro aeroporto? Signore, mi dispiace ma deve andare, il bus sta aspettando solo lei.
Piove forte e arrivo alla stazione, che poi è un terminal degli autobus. Mi aspettavo i treni e mi devo convincere che i treni in questo posto non ci sono mai stati. Niente rivoluzione industriale, qui sono passati dai vichinghi direttamente al postmoderno. La rivoluzione industriale qui ci è arrivata così tardi che non era nemmeno più rivoluzione. E più ci penso e meno mi è chiaro se questi hanno capito tutto o non hanno capito niente.
La stazione degli autobus è un posto pieno di gente che dorme dove può - nonostante l’evidente e inopportuno cartello “non dormire” - aspettando che apra l’altro aeroporto, ovunque esso sia.

La mattina dopo riusciamo ad atterrare in un posto che Punta Raisi sembra l’aeroporto di Los Angeles e subito dopo di noi atterra una tempesta.

Ho una stanza al primo piano di una casa fatta di legno e di lamiera. Nella stanza accanto c’è Yoko, una ragazza giapponese. Sono solo dieci minuti che ci conosciamo e fondamentalmente, stanchi come siamo, non abbiamo una mazza da dirci. È una situazione in cui il silenzio non spaventerebbe, è previsto, o almeno prevedibile. Nonostante ciò lei riesce a stare talmente tanto zitta, a mantenere un silenzio talmente profondo, da farmi subito sospettare che non avrebbe detto assolutamente nulla per tutto il nostro tempo lì. Le nostre stanze sono le uniche che affacciano dal lato dove finisce il paese, sul cimitero.

Il giorno successivo mi sveglio prima degli altri e trovo Yoko fuori la porta di ingresso che fuma. Mi dice che la notte prima ha visto un fantasma in camera sua. Io le sorrido e lei mi dice tante cose tutte insieme, rompendo il silenzio e le mie convinzioni. Dice che è tanto tempo che non ne vedeva uno, che da bambina era una cosa frequente. Dice che si è spaventata molto, che non sapeva cosa fare e che ha pensato anche di venirmi a svegliare. Smetto di sorriderle.
Quel giorno a casa nostra se ne va la corrente, niente luce. Poi si rompe l’impianto d’acqua calda, niente docce e niente riscaldamento. Poi, a sera, la porta della stanza di Yoko non si chiude più a chiave, inspiegabilmente. Prima di andare a dormire vado da Yoko e la minaccio.

Dopo un paio di giorni decido che non posso stare fermo in quel posto per così tanto, c’è troppo vuoto intorno per non colmarlo. Prendo una bicicletta ed esco dal paese per l’unica strada lungo il fiordo. Pedalo tantissimo su una bicicletta che è fatta per l’off-road, bellissima, ma praticamente immobile su una strada asfaltata. Così dopo poco decido di fare un minimo di fuori strada pure io e scelgo un discesone sul lato della montagna. La bicicletta in effetti va molto meglio, va da dio, velocissima, solo che io mi caco sotto e torno sulla strada normale.
Il bisogno di andare a vedere che c’è oltre non lo soddisfo mai. Pedalo forse per venti chilometri, passando per posti pieni di elfi e troll, cavalli e corvi, cicoria e mirtilli, meraviglie mai viste, ma non arrivo mai da nessuna parte. Mi persuado che non ci sono altri posti in cui poter arrivare, mi giro in un posto qualunque sulla strada e torno indietro.

Il paesino che ci ospita conta poco più di duecento persone, una pompa di benzina, una scuola, una chiesa, una banca aperta solo di lunedì, un’officina, un porto, una piscina bella calda, un capannone dove lavorano il pesce, una caffetteria e un’ambulanza. E poi case, di legno e di lamiera. Se devi fare spesa ti fai cinquanta chilometri.
Scopro presto che la fascia di età 15-30 è completamente assente, non esiste. E con lei non esiste l’inconsapevolezza su cui, a quell’età, si costruiscono personalità ancora vuote ed enormi, sovradimensionate (o le si prendono in prestito da qualcun altro aspettando il tempo giusto per restituirle). Non esistono quelli che sanno di non essere più bambini ma ancora non hanno idea di cos’altro siano. Non esiste nessuno che abbia la necessità di scappare altrove, indipendentemente da dove è nato, e indipendentemente da dove sia altrove. Insomma non esiste un cazzo di dubbio, in questo posto. Decido di non crederci e inizio a lavorare.

Cerco il ragazzino più grande di tutti, quello che se si guarda alle spalle vede solo gente più piccola, e se guarda avanti non vede nessuno. Cerco quello che è l’ultimo inverno in cui si è bambini, che l’anno prossimo cambia tutto, che la scuola finisce e me ne vado da un’altra parte.

Dopo un po' lo trovo, a scuola. Sa di essere il fonzie, forte in quel piccolo mondo, ma non abbastanza per tutto il resto. Così quando mi vede si ripara tra i suoi amici e non dice molto. Ha una maglietta del Barcellona, una moto da cross, ed è innamorato perso di una ragazza che, già si vede, un giorno gli farà del male.

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