28 maggio 2014

Una moltitudine di poche parole.


A ventidue anni parto per Milano e comincio lo stage in questo posto costruito con le fotografie, in questa città costruita con le forme, e appena arrivo tutto mi sembra superficie. Il posto dove lavoro è una grande agenzia di fotogiornalismo, un mondo sconosciuto e perciò entusiasmante, pieno di gente che incontri in pausa pranzo e parla di cose che non sai e che puoi imparare solo pian piano. E quando non è pausa pranzo si lavora e si parla di cose che non sai e che devi imparare veloce veloce. Lì imparo anche il nome delle cose che mi circondano, tutte con la s: scighera, schiscetta, sciura.

Una mattina, dopo forse un mese che sono lì, arriva uno stagista nuovo. Lo vedo altissimo e biondissimo, con gli occhi chiarissimi. Forse non erano nemmeno così chiari, ma io lo vedo proprio vichingo. Ok, questo ha vinto, penso. Se è vera la storia che in queste situazioni bisogna farsi vedere, competere per emergere, lui è già lì, è finita. Sembra il giovane Thor e io a confronto Lello Arena.
La storia non è vera e la competizione non c’è, meno male. Il ruolo che abbiamo ci porta a stare insieme spesso e scopriamo subito che stiamo bene l'un con l'altro. Mi prende in giro che non so pronunciare la z di alcune parole (tipo zanzara o calzino, non l'ho mai capito), e io a lui, che parla come una pubblicità di Radio Nord Giovane. Raga, stizza, bella, sbatti, benza. Già dai primi giorni ci raccontiamo quanto siano forti alcuni dei lavori che vediamo in quel posto, e quanto potrebbero essere migliori altri. E in quel pensarli migliori, in quel confidarci che potremmo forse immaginarli diversi, più belli, diamo vita senza dircelo ad una consapevolezza, un percorso. Ne iniziamo a parlare tanto, anche se non abbiamo ancora né l'esperienza, né gli strumenti per capire veramente come fare. E quindi spesso sono poche parole, ma tantissime lo stesso. Una moltitudine di poche parole su come faremmo e come faremo fotografia.

Nelle pause pranzo andiamo a mangiare in un parchetto, che a pensarci oggi è solo una serie di aiuole che si intrecciano non lontano dall’agenzia, e un giorno lui mi chiede se conosco Don McCullin. Io rispondo boh, forse. E lui mi dice eh boh pure io, però ho trovato la sua biografia da qualche parte e ho cominciato a leggerla. Per giorni continua a parlarmene, ad ogni pausa pranzo, mentre facciamo strada verso il parchetto, quando siamo lì e mentre torniamo indietro. Mi dice di quanto siano incredibili le sue foto e di quanto, forse ancora di più, le esperienze che ha fatto per scattarle. Ascolto e inizio a pensare che non si tratta di qualcosa di così forte per me, la missione del fotogiornalista io non la vivo, non la sento in quel modo lì. E penso anche, senza dirglielo, che è un ragazzo troppo alla mano, troppo simpatico, per voler fare veramente certe cose. Cioè dai siamo qui che ci diciamo un sacco di cazzate e scherziamo e ci troviamo bene, davvero avresti voglia di seguire quella strada? Qualche anno dopo, così come mi rendo conto che Milano esiste anche oltre la sua superficie, capisco che per fare fotografia di conflitto non devi necessariamente essere uno stronzo. E quindi la risposta a quella domanda sarebbe stata sì, e sarebbe stata certamente la risposta giusta.

Andy e io passiamo un bel po' di tempo insieme quella primavera. Vediamo insieme le mostre e i festival di fotografia, e quando è maggio pieno andiamo a Pianello Valtidone, un posto lontano anni luce da Milano, nonostante ci si arrivi in poco più di un’ora. Mi sembra che mi ci porta proprio lui lì, dice andiamo a vedere che c’è Alex Majoli che sta mettendo su qualcosa. E quando arriviamo c’è effettivamente Alex Majoli che, altissimo, sta mettendo un sacco di roba nella sua vecchissima mercedes, e c’è anche un altro tipo che non so ancora chi è. È altissimo pure lui. A vederli tutti e tre insieme sono tutti altissimi, sul serio. Penso cazzo, Lello Arena. Majoli sta partendo per andare a Cannes, al festival del cinema, per un commissionato lì, a fotografare non so cosa. Ad un certo punto molla quello che sta facendo e si siede su una sedia di plastica in mezzo all’asfalto che c’è davanti a questa sorta di officina vuota, o rimessa o open space. Parliamo insieme di un po' di cose, di quello che vogliamo fare, di quello che è necessario e di quello che sembra giusto. Lui è un tipo strano e carismatico, con le idee chiare. Ci dice roba che sembra presuntuosa e provocatoria e che solo dopo qualche tempo capiremo essere la verità.

Finita la primavera io e Andy iniziamo a vederci più di rado. Lo stage finisce e noi prendiamo strade che pian piano si separano e ci portano a sentirci sempre meno e a rivederci poi solo per caso. Lui continuerà a frequentare e vivere quel posto, mettendo su uno dei collettivi più belli.

Quell’estate finiscono un po' di cose di cui mi accorgo, ma finisce soprattutto qualcosa di cui non mi accorgerò fino all’altro giorno. Quell’estate finisce l’inizio. Il primo passo, il primo pezzetto di una strada che poi si continua altrove, distanti, ognuno giustamente e serenamente per sé. Finisce quel momento in cui vuoi capire la direzione, scegliere sempre di più chi stai diventando e di che cosa vorrai entusiasmarti di lì a qualche anno. Tutto questo finisce lì, e diventa memoria. Ed è bello averlo condiviso con qualcuno che è poi diventato un grande fotogiornalista per davvero.

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