9 giugno 2015

Ho scritto un libro.


L’altra sera è successo che si è inaugurata una mostra in una galleria di Palermo. Se fosse bella o meno non si può dire, almeno non su questo blog, perché la mostra è la mia e questo blog pure. E poi mi si direbbe che sono egocentrico e narciso.
Tra i diversi cliché simpatici che si consumano quando succede una roba del genere c’è un episodio che ormai si ripropone spesso, e al quale non so mai bene come reagire. Qualcuno arriva e mi fa i complimenti per le foto, e poi mi guarda con gli occhi che brillano pronti ad esplodere un gigantesco però.
Però la scrittura dovresti considerarla Boccaccì! Perché non scrivi più spesso? Che a fotografare fotografi bene, sì, bravo, però datti alla scrittura. Perché non scrivi un libro, due libri, una quadrilogia, un dodecaedro, una cosa a piacere?

E tutto questo è certamente una cosa bella. Il fatto però è che io non riesco mai a non pensare alla logica delle "braccia rubate all’agricoltura" (in una versione del tipo: “Fotografie. Pensieri rubati alla letteratura”). E tutto sommato in quest’ottica sembra mi venga meglio quello che faccio per diletto che quello che faccio per professione. Tipo Fabio Volo, che in effetti di professione non fa niente e quindi fa sempre meglio tutto il resto.

Comunque alla fine io dico grazie, che ci sto pensando a scrivere un libro, che forse lo scrivo proprio sui complimenti alle attività collaterali. Perché questi complimenti io li apprezzo molto, sono gratis e poi, diciamoci la verità, sono la vera ragione per cui ogni tanto scrivo. Essendo io effettivamente egocentrico e narciso, se la gente non mi dicesse “Quanto sei bravo che scrivi e per di più ci racconti i divertentissimi fatti tuoi” io non scriverei niente.

Ecco. Adesso ho appena deciso che lo scrivo quel libro. Però non quello sulle attività collaterali, che mi sa difficile, scrivo un romanzo, di avventura. Anzi no, un romanzo d’amore, che mi viene meglio e poi tira sempre di più. Una storia d’amore dove il protagonista è una cipolla. Meglio, il protagonista è un foglio di carta che si innamora di un altro foglio di carta a cui però non dice niente per quasi tutto il romanzo. Non tanto perché sia timido, ma perché i fogli bianchi non sanno parlare, e perciò si sta zitto. L’altro foglio di carta, a cui devo trovare il modo di dare le caratteristiche del personaggio femminile - poi ci penso - ha un sacco di pieghe lungo il corpo. E se ne sta in cima ad una pila di carta da riuso che c’è a lato della scrivania, ferita da queste pieghe dritte e lunghe, attraversata da verticali e diagonali che non arrivano più a nessuna punta. Ok, già sto perdendo il controllo di questa storia che finirà da sola in un libro per bambini. Comunque, il foglio di carta bianco protagonista, liscio e innamorato, sente che le vuole dire quanto è bella, però non ci riesce perché è vuoto, non ha parole da nessuna parte, e non ha storie da raccontare. La guarda e basta. E dall’altra parte il foglio di carta femmina vorrebbe non dire nulla - perché lei sì che è timida e traumatizzata - ma non può nascondersi. Le pieghe raccontano delle sue avventure da origami, del suo essere diventata per un po' qualcosa di più di quello che credeva di essere. E poi del suo aver fallito una piega diagonale ed essere tornata foglio, in una forma piatta che ormai vede immobile e quindi vana.
E così il tempo passa e i due fogli stanno lì a guardarsi, da una parte all’altra, ognuno nel suo silenzio inutile, a riconoscersi e a non fare altro.
E a questo punto del libro c’è tutta una riflessione lunghissima su quanto per un foglio bianco le cose superficiali siano al tempo stesse quelle più vere e profonde, perché il dentro e il fuori sono così vicini che finiscono per essere praticamente la stessa cosa. Se sei un foglio bianco e qualcuno ti scrive una parola sopra, in realtà te la sta anche scrivendo dentro. E questo naturalmente vale anche per le pieghe, che non sono solo cicatrici, ma lesioni profonde che sembra non si raddrizzino mai.
E mentre c’è tutto questo panegirico molto Fabio Volo, arriva l’essere umano che prende il foglio liscio innamorato e ci scrive con una penna blu “Niente da fare, si è otturato di nuovo il cesso e fa paura come sempre. Usa l’altro bagno!” e lo appoggia di nuovo sulla scrivania mentre cerca il nastro adesivo per attaccarlo sulle mattonelle.
Nonostante il romanticismo venga violentemente seppellito da questo episodio, il foglio bianco è contentissimo, anche perché non è più bianco. Adesso finalmente ha una storia, e delle parole che può prendere e scegliere, tagliandole e cucendole per dire milioni di cose. Beh, forse milioni proprio no, però gli prende comunque benissimo. Si mette di impegno e le prova tutte: le vuole dire che i fogli di carta piegati sono fortunati, perché inclini a diventare supereroi. Si possono ripiegare di nuovo, e le stesse pieghe che non hanno funzionato per un origami possono funzionare per qualcos’altro. E magari un giorno si ritrova ad essere chessò, un aeroplano - che poi è chiaramente il sogno di tutti i fogli di carta - e a quel punto altro che immobilismo e vacuità.
Però è difficile da dire. Se il nostro eroe mezzo muto fosse stato usato per appunti di poesia, o per una fotocopia di una pagina di un libro sarebbe stato subito, e invece gli è toccato il linguaggio stretto di una comunicazione di servizio.
In ogni caso ad un certo punto sorride, le si avvicina affannato, e con grande orgoglio le dice tutto quello che riesce: “Niente paura, si è sempre altro. Si è sempre di nuovo.”
E poi niente, mi sa che finisce così.

(L’ho appena riletto, magari scrivo quello sulla cipolla).

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