13 gennaio 2015

Charlie non fa surf.


Nelle ultime ore, come ormai spesso accade quando succede qualcosa di grosso su internet, si è sentito di vicende piuttosto singolari. Molti degli uffici anagrafici in Italia e all’estero sono sommersi di richieste di cambio nome e comprensibilmente non ce la fanno a soddisfarle tutte. Tantissimi cittadini, insoddisfatti e irritati, scendono perciò in strada e manifestano la propria nuova identità settimanale sventolando piccoli cartelli col proprio nome. In Francia si parla addirittura di milioni di persone, con milioni di fogli in una mano e milioni di matite nell’altra, che civilmente dimostrano il loro supporto alle cartolerie di Parigi. La maggior parte, a quanto pare soprattutto qui da noi, impossibilitata a scendere in strada perché comunque il culo è sempre un po' pesante, si rivolge all’altro anagrafe, facebook, che ha sempre funzionato in maniera più efficiente e veloce, risolvendo lì tutti i propri problemi. Si cambia nome e si cambia volto e si è finalmente, anche per questa settimana, tutti uguali. 

Mentre cerco di capire se mi si nota di più essendo Charlie o non essendolo, mi torna continuamente in testa che io questo Charlie l’ho già sentito. Prima dei fatti di Parigi, che tutto sommato non mi hanno sorpreso più di tanto, Charlie era già saltato fuori, con un ruolo più o meno simile, sebbene in contesti diversi. Senza sapere bene perché, e senza indagare a fondo, mi viene da pensare che Charlie è sempre stato uno che ha preso legnate, spesso da qualcuno più grosso o più bullo, e altrettanto spesso in maniera ingiustificata. E poi alla fine qualcuno muore.

Tipo quella volta che il tenente colonnello Kilgore ordina una bella spruzzata di napalm nei pressi del fiume Mekong, in Vietnam, per fare fuori il Charlie di turno. In questo caso Charlie era l’abbreviazione di Victor Charlie (che nell’alfabeto militare che tutti noi utilizziamo quando giochiamo coi walkie talkie sta per VC, ovvero Viet Cong).
Adesso. La ragione principale per cui gli americani hanno fatto la guerra in Vietnam - ormai è storia, e soprattutto è cinema - consisteva nel fatto che Charlie non faceva surf. Questo è il centro di tutto.
I vietnamiti, a differenza dei soldati americani, non apprezzavano le fantastiche onde che si alzano sul delta del Mekong e quindi non meritavano di occupare il villaggio sulle sue sponde. Charlie non fa surf? Non vede il senso di libertà che si ha cavalcando le onde? Non dà valore ad una cosa così bella, così essenziale, così pura? Non apprezza quello che invece è naturale e doveroso apprezzare, e che io voglio potermi godere dove mi pare? Allora vado e gli rompo il culo.

Non so se si tratti di una scelta sensata, ma certamente mi pare legittima. Ognuno si può sentire infastidito da quello che vuole. E fondamentalmente viviamo in un mondo che, al di là delle regole scritte che si è dato (che in fondo serviranno solo a far bella figura quando arriveranno gli alieni e ci chiederanno come gestiamo le cose qui da noi), ci permette di risolvere la maggior parte dei fastidi, delle noie e delle controversie nella maniera che ci sembra più opportuna.

Charlie Brown, un’altro Charlie appunto, subiva la propria incapacità di essere veramente bambino. Gli altri personaggi si prendevano gioco di lui, del suo non saper giocare a baseball e del suo non saper far volare gli aquiloni. Con l’autostima sotto i piedi Charlie Brown non ha mai veramente imparato a fare il bambino allegro e vivace, ma è andato avanti facendosi domande sul mondo e sul futuro. Al di là della grande empatia - che ci sta tutta, lo ammetto - del forza Charlie Brown, siamo tutti con te, siamo tutti come te, il ragazzo le ha sempre prese. E le ha sempre prese per non aver saputo aderire al suo ruolo, al suo modello sociale. Se i Peanuts non fossero un fumetto positivo, romantico e piacevole (cosa che per fortuna sono), le vicende di Charlie Brown si concluderebbero in un albo dove lui impazzisce, prende un fucile da un genitore qualunque, e mette in scena una cosa tipo strage di Colombine in vignette quadrate. È Charlie, è un bambino disadattato, preso in giro dal mondo, non sa usare un aquilone figuriamoci se sa fare surf, è normale perciò che anche in questa storia deve morire qualcuno.

Infine, tanto per dirselo. Se è vero che il mondo a cui apparteniamo ha individuato dei nemici là fuori - e li ha individuati già da tempo, trattandoli come tali in vari modi, compresa una selezione di bombe dalla scorsa collezione autunno/inverno (e forse anche dalla precedente primavera/estate, che era in saldo) - non vedo qual’è la sorpresa nello scoprire che certe cose avvengono in entrambe le direzioni.
Forse è difficile giustificare il terrore e i morti sotto casa, proprio in quel nido di valori e sicurezza che tanto ci affanniamo a proteggere. Ma stiamo subendo anche qualcos’altro, ugualmente difficile da giustificare, che influenza il nostro ecosistema ben più delle minacce esterne. Nell’esigenza di identificare un avversario altrove, un rivale non surfista, non abbiamo potuto evitare di diventare noi stessi degli oppositori, perché non ci sono nemici a senso unico. Dobbiamo considerare che anche noi siamo i nemici di qualcuno. In questo senso sì, siamo tutti Charlie, e nessuno di noi fa surf.



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